venerdì 17 febbraio 2012

Marzo 2009


Amleto-atto III-scena I
(Entra Amleto:)
Essere o non essere? Questo è il problema:
se sia forse più nobile soffrire, nell'intimo del proprio spirito,
le pietre e i dardi scagliati dall'oltraggiosa fortuna,
o imbracciar l'armi, invece, contro il mare delle afflizioni,
e, combattendo contro di esse, metter loro una fine. Morire, dormire.
Nient'altro. E con quel sonno poter calmare
i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese naturali
di cui è erede la carne: quest'è una conclusione
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare. È proprio qui l'ostacolo:
perché in quel sonno di morte, tutti i sogni che possan sopraggiungere
quando noi ci siamo liberati dal tumulto, dal viluppo di questa vita mortale,
dovranno indurci a riflettere. È proprio questo scrupolo
a dare alla sventura una vita così lunga!
Perché, chi sarebbe capace di sopportare le frustate e le irrisioni del secolo,
i torti dell'oppressore, gli oltraggi dei superbi,
le sofferenze dell'amore non corrisposto, gli indugi della legge,
l'insolenza dei potenti e lo scherno che il merito paziente
riceve dagli indegni, se potesse egli stesso dare a se stesso la propria quietanza
con un nudo pugnale? Chi s'adatterebbe a portar cariche,
a gèmere e sudare sotto il peso d'una vita grama,
se non fosse che la paura di qualcosa dopo la morte
– quel territorio inesplorato dal cui confine
non torna indietro nessun viaggiatore – confonde e rende perplessa la volontà,
e ci persuade a sopportare i malanni che già soffriamo
piuttosto che accorrere verso altri dei quali ancor non sappiamo nulla.
A questo modo, tutti ci rende vili la coscienza,
e l'incarnato naturale della risoluzione
è reso malsano dalla pallida tinta del pensiero,
e imprese di gran momento e conseguenza,
deviano per questo scrupolo le loro correnti,
e perdono il nome d'azione. Zitto, ora:
la bella Ofelia! Ninfa, nelle tue preghiere
intercedi per me, peccatore.

(William Shakespeare)

Non so voi, ma ogni volta che rileggo o recito di nuovo questo monologo ad alta voce, è come se avesse un effetto catartico, su di me...
Aware 1-3-2009





Liberarsi
Chi sei?
Tu che giudichi te stessa.
Sì, testa a partito
non muovi un dito,
e gridi dentro repressa,
di una felicità concessa,
alla consuetudine della vita.
Ridi con felicità al tuo dolore,
ad ogni rintocco di ora,
al bell'aspetto finché dura
e alla paura di una pianta in autunno
che di ripresa più non parla
e giace incolta in una smorfia di dolore.
Chi sei tu?
Esterno brio, che soffochi e nascondi
all'ombra del solo pensiero,
quel che vorresti fosse vero.

(Mimmo Garriba, In silenzio. Pensieri, Ed. Giuseppe Laterza, Bari, 1998)
Claudia 8-3-2009





Il materialismo etico
Se le valutazioni teoriche (vero e falso) sono puramente convenzionali, le valutazioni morali (bene e male) sono puramente soggettive, cioè relative all'individuo singolo e alle situazioni in cui l'individuo viene a trovarsi. Non c'è nulla che sia assolutamente buono o cattivo e non c'è una norma che valga a distinguere assolutamente il bene dal male; giacché queste determinazioni non sono inerenti alla natura delle cose, ma  dipendono dagli individui, dove non esiste lo Stato; o, dove c'è lo Stato, dalla persona che lo rappresenta o da un arbitro o giudice che gli individui in disaccordo tra loro scelgono affinché la sua sentenza serva loro di legge. In generale, si chiama bene ciò che si desidera, male ciò che si odia; e poiché il raggiungimento di ciò che si desidera procura  piacere, e il piacere aumenta e rafforza il movimento della vita, così le cose che danno piacere si chiamano pure giovevoli e belle. Quando nella mente dell'uomo si alternano desideri diversi ed opposti, speranze e timori, e si presentano le conseguenze buone e cattive di un'azione possibile, si ha quello stato che si chiama di deliberazione.

Esso termina nell'atto della volontà che decide di agire o non agire. La volontà conclude temporaneamente i dubbi, le oscillazioni, le incertezze dell'uomo; ma questi rinascono subito, giacché l'uomo non può raggiungere uno stato definitivo dì tranquillità e di quiete. Perciò non si può parlare di un sommo bene e di un fine ultimo nella presente vita dell'uomo. Un fine ultimo sarebbe tale che, dopo di esso, nient'altro dovrebbe essere desiderato.

Ma poiché, il desiderio si accompagna necessariamente alla sensibilità, l'uomo che avesse raggiunto il fine ultimo non solo non desidererebbe più nulla, ma neppure sentirebbe e quindi non vivrebbe affatto. «La vita, dice Hobbes (L’uomo,11), è un movimento incessante che, quando non può continuare in linea retta si trasforma in moto circolare».



Nella vita umana così intesa, non c'è posto per la libertà. Hobbes definisce la libertà come «l'assenza di tutti gli impedimenti all'azione che non sono contenuti nella natura e nell'intrinseca qualità dell'agente». Questa definizione riduce la libertà alla libertà d’azione, che c'è quando la volontà non è impedita nelle sue manifestazioni esteriori, ma nega la libertà del volere. Quando un uomo ha appetito o volontà di qualche cosa dicui nell'istante anteriore non aveva né appetito né volontà, la causa della sua volontà non è la volontà stessa, ma qualcosa di diverso, che non dipende da lui.

La stessa volontà è dunque causata necessariamente da altre cose: in quanto hanno cause necessarie, le azioni umane sono necessitate. Hobbes, che ha chiarito e difeso il suo determinismo nella polemica col vescovo Bramhall, insiste sul fatto che la volontà è intrinsecamente necessitata dalle cause e dai motivi che le sono inerenti, motivi che in ultima analisi sono dovuti alla totalità della natura, giacché tutti gli atti dello spirito umano (compresa la deliberazione e la volontà) sono movimenti connessi degli oggetti esterni. “Difficilmente v’è qualche azione che, per quanto sembri casuale, non sia prodotto da tutto ciò che esiste in natura”.

(Hobbes)
Aware 11-3-2009

Piccola mela
Francesco De Gregori
PICCOLA MELA
 

da "Rimmel", 1975


Mi metto in tasca una piccola mela...
mi metto in tasca una piccola mela.
Ti portassero in piazza
con chiodi e catene,
se davvero non sei sincera!

La figlia del dottore è una maestrina...
la figlia del dottore è una maestrina.
E conosce a memoria
tutti i libri di Omero:
li ripassa tre volte la mattina.

Mi metto in tasca un piccolo fiore...
mi metto in tasca un piccolo fiore.
Ti legassero stretta
alla quercia più vecchia,
se davvero non vuoi il mio cuore!

La figlia del dottore sa cantare!...
la figlia del dottore sa cantare.
E mi piace, poi, tanto,
quel suo modo di fare...
forse un giorno faremo l'amore!


E' primavera, sapete... sto felice e canterino, in questi giorni... l'amore (Sì, ma per chi? Devo ancora capirlo bene!), l'arte, la bellezza... e fra dieci giorni... Praga!
Aware 18-3-2009

Arguti battibecchi
BEATRICE: Mi meraviglio che parliate ancora, signor Benedetto: nessuno vi bada.
BENEDETTO: Oh, la mia cara signora Sdegnosità! Siete ancora viva?
BEATRICE: E' possibile che muoia la Sdegnosità, quando a nutrirla trova un cibo come il signor Benedetto? La cortesia stessa diventerebbe sdegnosità se voi le capitaste davanti.
BENEDETTO: Allora la cortesia è una voltagabban. Comunque è sicuro che tutte le donne mi amano, eccetto voi. E in fondo al cuore mi piacerebbe pensare che non sono senza cuore, perché per la verità non ne amo nessuna.
BEATRICE: Una bella fortuna per le donne, che altrimenti sarebbero state seccate da un corteggiatore importuno. Ringrazio Dio e il mio sangue frigido che in questo sono uguale a voi; preferisco sentire il mio cane abbaiare a una cornacchia che un uomo giurarmi amore.
BENEDETTO: Che Dio conservi sempre la signoria vostra di questo parere, così qualche gentiluomo scamperà al destino di aver la faccia graffiata.
BEATRICE: I graffi la peggiorerebbero ben poco, se fosse una faccia come la vostra.
BENEDETTO: Già! E voi siete bravissima ad ammaestra pappagalli.
BEATRICE: Meglio un uccello con la mia lingua che un bestione con la vostra.
BENEDETTO: Vorrei che il mio cavallo fosse veloce e infaticabile come la vostra lingua. Ma andate per la vostra strada, in nome di Dio: io ho finito.
BEATRICE: Finite sempre con una sgroppata da ronzino: è un pezzo che vi conosco.

(William Shakespeare, Molto rumore per nulla, I, 1, traduzione di Maura del Serra, NewtonCompton editori)
Aware 22-3-2009





Io vorrei vivere addormentato
SANDRO PENNA

Io vivere vorrei addormentato

Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita.

(Sandro Penna, Poesie)
Sto per partire... statemi tutti bene!

Aware 27-3-2009



<<Il lunedì seguente Serena non viene a scuola. Le ragazze dicono che non tornerà più perché sua madre è stata arrestata: Per droga eccetera, e ora Serena dovrà andare ad abitare con la nonna in Georgia dove, dicono, ai neri li trattano da negri. Secondo loro non ci resisterà un minuto. A forza di rispondere ai bianchi si ficcherà subito nei guai. E questo perché non ha peli sulla lingua, professore.
Senza Serena la classe si trasformò, divenne un corpo senza testa. Maria alzò la mano e mi chiese perché parlavo in quel modo strano. Ero sposato? Avevo figli? Che preferivo, Amleto o Una scommessa in fumo? Perché ero diventato professore?
Stavano costruendo dei ponti che potevamo attraversare avanti e indietro; io rispondevo alle loro domande e non me ne fregava più niente se raccontavo troppe cose di me stesso. Con quanti preti mi ero già confessato all’età loro? L’importante era che quelle ragazzine adesso stavano attente.
Un mese dopo la partenza di Serena ci furono due bei momenti. Claudia alzò la mano e disse: Professore, sei proprio simpatico. La classe annuì – infatti, infatti – e i due ragazzi portoricani in fondo all’aula sorrisero. Poi alzò la mano Maria. Professore, m’è arrivata una lettera di Serena. Dice che è la prima lettera che scrive in vita sua e se non glielo diceva sua nonna manco la scriveva. Lei sua nonna non l’aveva mai vista però gli vuole bene lo stesso perché non sa né leggere né scrivere e Serena gli legge la Bibbia tutte le sere. E adesso professore reggiti forte, dice che vuole finire le superiori e andare all’università per fare la maestra. Insegnare ai ragazzi grandi come noi no, perché siamo solo una rottura, invece i bambini non rispondono male. E poi si scusa per tutte le cose che ha fatto in questa classe e dice che te lo devo dire. Un giorno dice che scrive pure a te.
Dentro di me scoppiano i fuochi d’artificio, cento volte Capodanno e cento volte il Quattro luglio.>>


(F. McCourt, Ehi, prof!, Ed.Adelphi, Milano, 2008, pp.180-181)
Claudia 30-3-2009

Febbraio 2009


L'intensità
di una passione
muta
la vita
rendendola
degna di essere vissuta,
ma al suo svanire
abbandona
i restanti anni
nella nostalgia
del suo ricordo.

(Claudiaz)
10-2-2009







"O bella età de l'oro,
non già perché di latte
se 'n corse il fiume e stillò mele il bosco:
non perché i frutti loro
dier da l'aratro intatte
le terre e gli angui errâr senz'ira o tosco:
non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch'ora s'accende e verna,
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce a gli altrui lidi il pino.

Ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell'idolo d'errori, idol d'inganno,
quel che da 'l volgo insano
Onor poscia fu detto,
che di nostra natura il feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l'amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quell'alme in libertate avezze,
ma legge aurea e felice
che Natura scolpì: S'ei piace, ei lice.

Allor tra fiori e linfe
traen dolci carole
gli Amoretti senz'archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e susurri ed a i susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose
ch'or tien ne 'l velo ascose,
e le poma de 'l seno acerbe e crude;
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l'amata il vago.

Tu prima, Onor, velasti
la fonte de i diletti,
negando l'onde a l'amorosa sete:
tu a' begli occhi insegnasti
di starne in sé ristretti,
e tener lor bellezze altrui secrete:
tu raccogliesti in rete
le chiome a l'aura sparte:
tu i dolci atti lascivi
festi ritrosi e schivi,
a i detti il fren ponesti, a i passi l'arte;
opra è tua sola, o Onore,
che furto sia quel che fu don d'Amore.

E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
Ma tu, d'Amore e di Natura donno,
tu domator de' regi,
che fai tra questi chiostri
che la grandezza tua capir non ponno?
Vattene e turba il sonno
a gl'illustri e potenti:
noi qui negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l'uso de l'antiche genti.
Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita e si dilegua.

Amiam, ché 'l Sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce."

(Torquato Tasso, Aminta, Atto I, Coro)
Aware 13-2-2009







La donna di scorta
[…] Aveva conosciuto persone con amanti, e non ne aveva mai invidiato la condizione. Li aveva visti fingere e mentire, fare del male senza volere anche quando lo facevano apposta, perdere la dignità e soprattutto il senso del ridicolo quando la cosa diventava evidente.
Con Dorina no. Lo aveva capito dall’inizio che non avrebbe mai interferito nella sua vita. E questo, invece di rendergli le cose più semplici, gliele complicava. Mai una domanda. Mai un moto di curiosità verso la sua famiglia. Mai un segno di gelosia. Sembrava che non volesse più di quanto lui fosse disposto a darle. Che il desiderio di un futuro con lui non la riguardasse per niente. E non è che avesse dato dei limiti di partenza, discorsi con l’incipit del tipo mettiamo le cose in chiaro o bada però che. Lo aveva accolto nella sua vita senza riserve. Non gli aveva chiesto rinunce. Gli aveva aperto la casa, l’ufficio, perfino le carte del lavoro. Un altro, al posto suo, e soprattutto lui stesso, pensava, avrebbe fatto i salti di gioia. Invece Livio si sentiva privato di una cosa importante. Ad ogni incontro con lei si accorgeva di dipendere un altro po’ dalla sua bocca chiusa, da quel secondo posto accettato con naturalezza. Come se la certezza che l’assetto della sua vita non fosse minacciato da Dorina, invece di rassicurarlo, gli mettesse dentro l’inquietudine. Quante volte, nel salutarla per andarsene, la guardava cercandole uno straccio di rancore. Quanto avrebbe dato per un’alzata di sopracciglia, una smorfia da niente. Per non sentirsi addosso quella ridicola infelicità. […].

(Diego De Silva, La donna di scorta, Edizioni Einaudi, Torino, 2001, pp. 44-45)
Claudia 16-2-2009





Il sentimento del contrario
Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l'immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario.

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbel­lettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vec­chia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a pri­ma giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavoran­do in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del con­trario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico. (...)

(Luigi Pirandello, L'umorismo)
Aware 22-2-2009

Gennaio 2009


Il fondamento della mancanza
[…] Tutti noi che abbiamo la fortuna di innamorarci prendiamo realmente coscienza della metamorfosi che si è prodotta quando usciamo da questa esperienza, ma tuttavia riusciamo a intuirla anche mentre la attraversiamo. Va detto però che ci vuole un po’ di coraggio, perché una promessa di completezza implica sempre anche il rischio di un fallimento. Può darsi che in quel particolare momento qualcosa ostacoli la mia metamorfosi e allora l’altro, dopo aver incarnato la “promessa vivente” della mia possibilità di divenire, può rappresentare la testimonianza vivente della mia impossibilità di trasformarmi. Questo è l’aspetto più inquietante, perché l’aver sentito anche per un attimo che potevamo essere diversi, l’esserci illusi che qualcosa poteva cambiare ci lascia un retaggio doloroso. E allora dobbiamo imparare a sopportare la privazione. Io penso che l’accettazione della mancanza sia un altro tratto strutturale della nostra esistenza. Tutta la nostra vita è una lotta per afferrare quel qualcosa che ci sfugge, e per poter lottare dobbiamo imparare a sentire sulle nostre spalle il peso dell’assenza dell’altro. Io credo che nessuna terapia, nessuna esperienza consenta di eliminare questo senso di vuoto che l’amore, illudendoci, ci promette di riempire. Quando crediamo che questo vuoto sia stato abolito, è probabile che stiamo ingannando noi stessi. Infatti, per quanto l’altro possa corrispondere al nostro desiderio inconscio, il bisogno di totalità è talmente smisurato che nessuna esperienza lo potrà colmare. Il destino strutturale della nostra vita è imparare a sopportare la privazione e anche la delusione della persona che ci è accanto: quale che essa sia, qualunque cosa possa rappresentare o aver rappresentato per me, esprime comunque un’assenza. […]

                                                                      


(Aldo Carotenuto, Eros e pathos. Margini dell’amore e della sofferenza, Tascabili Bompiani, Milano, 2008, pp. 39-40.)
Claudia 10-1-2009

Passammo poi nella scuola di lingue, dove tre accademici stavano a consulto sul mezzo di migliorar la lingua del paese.
Dapprima venne proposto di abbreviare il discorso riducendo i polisillabi a monosillabi ed eliminando i verbi e i participi: perchè, a veder le cose come stanno, tutte le cose immaginabili non sono che nomi.
Venne seconda la proposta di abolir del tutto ogni parola, e fu caldamente appoggiata come infinitamente vantaggiosa alla salute non meno che alla concisione.
E' chiaro, infatti, che ogni parola pronunziata ci logora in qualche modo i polmoni e, di conseguenza, contribuisce ad abbreviarci la vita. Fu dunque suggerito che, dato che ogni parola è semplicemente il nome di una cosa, sarebbe più conveniente a chiunque portarsi addosso tutte le cose necessarie a esprimere i particolari affari di cui vuol parlare. Tale ritrovato sarebbe stato accolto senz'altro con gran vantaggio della comodità e della pubblica salute, se le donne, d' accordo con il volgo e gli illetterati, non avessero minacciato una rivolta rivendicando la libertà di parlar con la  lingua al modo dei loro padri: il volgo è sempre stato nemico irriducibile della scienza. Tuttavia  parecchi fra i più dotti e i più saggi hanno aderito a questo nuovo modo di esprimersi attraverso le cose; unico suo inconveniente è che, se dobbiamo trattare affari complessi e di vario genere, siamo costretti a portarci sulla schiena una montagna di oggetti, a meno che non si possa disporre di due gagliardi servitori che ci aiutino. Ho spesso visto un paio di questi saggi quasi sommersi nel cumulo dei loro fagotti come i nostri merciai ambulanti; quando s' incontrano per via, metton giù il loro carico, aprono i sacchi e chiacchierano per un' ora; poi ripongono ogni cosa, si aiutano a vicenda a rimettersi in spalla il fardello e si salutano.
Ma per conversazioni brevi, si possono portare i vari oggetti in tasca o sottobraccio; e in casa propria, poi, nulla può mancare.Per questo le sale in cui si radunano coloro che praticano questo sistema son piene di cose messe lì sottomano e pronte a fornir materia a questa sorta di conversazione artificiale.
Altro gran vantaggio è che l'invenzione può servire come linguaggio universale, che può esser capito in tutte le nazioni civili le quali usano in genere suppellettili e utensili dello stesso genere o molto simili, così che facilmente si può capire il loro significato. In tal modo gli ambasciatori potrebbero trattare con principi o ministri stranieri senza conoscerne minimamente la lingua.

(Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver; nome del traduttore ignoto, il brano è stato preso da Internet, non disponendo io al momento della mia copia del romanzo, che ho di recente prestato)
Aware 18-1-2009



AUGURI DI BUON COMPLEANNO AL MIO PICCOLO PRINCIPE.
Claudia 20-1-2009







La nostalgia
Durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me
non dico che fosse come la mia ombra
   mi stava accanto anche nel buio
non dico che fosse come le mie mani e i miei piedi
   quando si dorme si perdono mani e piedi
e io non perdevo la nostalgia nemmeno durante il sonno
durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me
non dico che fosse fame o sete o desiderio
   del fresco nell'afa o del caldo nel gelo
era qualcosa che non può giungere a sazietà
non era gioia o tristezza non era legata
alla città alle nuvole alle canzoni ai ricordi
   era in me e fuori di me
   durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me
   e del viaggio nulla mi resta se non quella nostalgia.

(N. Hikmet, Poesie d'amore 1933/63, Mondadori, Milano, 1984, pag.94) 
Claudia 22-1-2009









E tutto il tempo è vicino, a portata di mano
Lucio Battisti
A portata di mano
da "L'apparenza", 1988, traccia n°. 1, testo di Pasquale Panella

Dicendo "Abbiamo tempo"
ci giri intorno
stemperi e riempi
come dire, centotré vasetti
di liquido con colore diluito
che certamente
è meno previdente
di una conservazione che alimenti
tutti i tuoi seguenti
spunti di appetito
sono fluidi a vedersi
c'è un piacere
anche perché qualcosa si nota che manca
e se ci fosse è come non avesse nome
abbiamo tutto il tempo
e poi il discorso prende una piega architettonica
nell'aria con le mani
si collega ai pianti rampicanti
all'euforia da giardino
ai pensili eccitanti
all'ornamentale destino
e tutto il tempo è vicino
a portata di mano
sul tavolino sul ripiano
su quanto ti è più caro
ma se cominciassimo
che ne dici
se entrassimo nel vivo
oltre la porta orale
saliamo a perpendicolo la scala
che nel buio si avvita
l'umido della parete nella mano
si asciuga sempre più
parete che d'acciughe sale su
nella rete in miniatura
saliamo dei gradini con le punte
eppure sconoscendo se calziamo un'epoca
una storia o una leggenda
in cui calati risalendo siamo
e l'anta si spalanca
dicendo "Abbiamo tempo"
tu intendevi dire il contrario
vedevi necessario che quanto vai inventando oggi
non te lo ritrovassi sempre vivido
tra i piedi tale e quale
esatto nel reale
con i particolari talmente precisi
un domani da non credere
che i fatti siano intrisi
di te così profondamente
così com'è com'è vero avvengano
in assenza di qualsiasi sostanza
volevi invece dire
"Prendi il tempo con me"
un po' interrogativa
mentre la mano offriva
"Abbiamo tutto il tempo
aroma di caffé."
Aware 31-1-2009

Dicembre 2008


Viaggi nell’arte…
Francesco Dell
 Francesco Dell'Aglio, Figure in movimento, 2002, tela su acrilico, 100cm.x100cm.

Francesco DellFrancesco Dell'Aglio, La Danza, 2003, tela su acrilico, 50cmx40cm.








E’ trascorso oltre un decennio da quando ho avuto il grande piacere di conoscere l’artista delle opere proposte in questo post. E’ difficile scrivere quando la stima si mescola all’affetto, si rischia di non rendere giustizia alla produzione artistica del pittore. L’amicizia che ci ha legati nel tempo, nonché la comunanza di studi e interessi, mi hanno permesso di cogliere le sfumature dell’animo di Francesco Dell’Aglio. La sensibilità spiccata - innanzitutto umana, delicatissima e tenera - è leggibile nella sua produzione pittorica giocata su elementi del reale trasmutati in simboli. La vivace tonalità dei colori di cui si avvale Francesco Dell’Aglio riflette l’intensità con la quale l’artista fa propri tali simboli, vivendoli quasi a contorni netti. Si alternano così nei sui quadri campiture di colore, l’una inserita nell’altra o accostate, che “incorniciano” figure umane stilizzate, galli, bocche che sembrano fauci o semplici segni grafici veicolanti il tormento dell’anima. I soggetti sono andati diversificandosi nel tempo in una continua ricerca del sé attraverso l’espressione pittorica. Dopo una sosta durata alcuni anni, l’artista mi ha riferito di aver ricominciato a dipingere ed è tutt’ora attivo. Le sue opere sono state esposte varie volte e vendute presso gallerie d’arte. Una fra quelle proposte è, con sommo piacere e onore, di mia proprietà, gentile omaggio dell’artista alla nostra amicizia. Vi lascio all’emozione cromatica prodotta dai lavori sopra associati, sebbene le foto da me scattate non siano ottimali.



“La ricerca estetica di Francesco Dell’Aglio ha radici saldamente fondate nella storia della pittura dell’ultimo secolo, mostrando legami con diversi aspetti delle avanguardie storiche. E’ una ricerca che si dilata dalla realtà sensibile alla sfera della pura intuizione, dove l’oggettività perde l’identità naturalistica, per assumere forme nuove che sfiorano talora l’astrazione. In questo processo evolutivo un ruolo predominante assume il colore: non dirompente né lasciato al caso, eppure vivace o decisamente fauve, compreso sempre però entro confini geometrici disposti su fondi monocromi scuri, a comporre entità variegate che rimandano a forme paesaggistiche, figure, oggetti. L’interpretazione delle percezioni e delle emozioni si sviluppa nelle pagine pittoriche di Francesco Dell’Aglio con un’espressionistica forza narrativa, anche se le immagini rimangono a volte sospese in atmosfere di chagalliana memoria. I contenuti sono per lo più legati a un mondo di esperienze soggettive, ma l’artista riesce a conferire loro simboliche valenze, comunicando riflessioni e sentimenti di universale respiro”.
(V. Cracas)


“Francesco Dell’Aglio è nato a Bari nel 1973; vive ed opera a Noicattaro (BA). Pittore, si è diplomato presso l’Istituto Statale d’Arte (sezione architettura e arredamento) nel 1993 e si è laureato in Lettere moderne con indirizzo storico-artistico nel 2001. Ha esposto in varie mostre, fra cui la Mostra Nazionale di Pittura e Bianco e Nero di Foggia “XXX Premio Primavera” ed altre estemporanee, ottenendo consensi e apprezzamenti.”


Indirizzo: Parco Evoli, 4 – 70016 Noicattaro (Bari)



Fonti bibliografiche:
La recensione di Cracas e i cenni sulla vita dell’artista sono tratti da L'élite. Selezione Arte italiana 2003, Editrice l'élite, Varese 2003.




N.B. Coloro che volessero riprendere stralci di questo post sono pregati gentilmente di citarne la fonte onde evitare spiacevoli malintesi. Grazie.
Claudia 2-12-2008









Alla sera-Foscolo
UGO FOSCOLO
Alla sera
Forse perché della fatal quïete
tu sei l'immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
       4le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
       8vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
       11questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
       14quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.

(Da "I sonetti", 1803)

Chi di voi non ha mai sentito la serenità totalizzante della sera, anche nei luoghi più rumorosi? Forse perché l'approssimarsi della fine è sempre un altro inizio a noi sì caro viene, e ci rende gioiosi e distratti!
Aware 3-12-2008




Daniel Pennac-Da: “Come un romanzo”
42.
Immaginiamo una classe di adolescenti. Circa trentacinque studenti. Oh! Non quel genere di studenti accuratamente calibrati per varcare in gran fretta gli alti portoni delle grandi università, no, gli altri, quelli che sono stati respinti dai licei del centro perché la loro pagella non lasciava prevedere un gran voto alla maturità, né addirittura una maturità.
È l'inizio dell'anno.
Sono approdati qui.
In questa scuola.
Davanti a questo professore.
Ma sarebbe meglio dire che si sono arenati qui. Respinti sulla riva, mentre i loro compagni di ieri hanno preso il largo a bordo di licei-transatlantici in partenza per grandi "carriere". Relitti abbandonati dalla marea scolastica. Così si descrivono nella classica scheda di inizio anno.
Cognome. nome. data di nascita...
Informazioni varie:
"Sono sempre andato malissimo in matematica... "Le lingue non mi interessano"... "Non riesco a concentrarmi"... Non so scrivere". . . "Ci sono troppi vocaboli nei libri" "(sic ! Eh! sì, sic!)... " "Non capisco niente di fisica"... "Ho sempre avuto zero in ortografia"... "In storia, potrebbe andare, ma non mi ricordo le date"... "Credo di non esercitarmi abbastanza"... "Non riesco a capire"... 'Ho sbagliato un mucchio di cose"... "Mi piacerebbe disegnare ma non sono molto portato"... "Era troppo difficile per me"... "Non ho memoria"... "Mi mancano le basi"... "Non ho idee"... "Mi mancano le parole"...
Finiti...
Così si dipingono.
Finiti ancor prima di aver cominciato.
Certo, calcano un po' la mano. Ma è il genere a richiederlo. La scheda personale, come il diario, ha molto dell'autocritica. In essa si tende istintivamente a denigrarsi. Inoltre, accusandosi di tutto, ci si mette al riparo da molte pretese.
Almeno questo dalla scuola l'avranno imparato: il conforto della fatalità. Non c'é nulla di così tranquillizzante come un eterno zero in matematica o in ortografia. Escludendo l'eventualità di un progresso, esso sopprime gli inconvenienti dello sforzo. E confessare che i libri contengono "troppi vocaboli", chissà, forse li esonererà dalla lettura...
Eppure, questo ritratto che gli adolescenti fanno di se stessi non é fedele: non hanno la faccia del ritardato dalla fronte bassa e dalla mascella quadrata quale potrebbe immaginare un cattivo regista che leggesse i loro telegrammi autobiografici.
No, hanno la faccia molteplice della loro generazione: ciuffo a banana e stivaletti per il rocker di turno, calze inglesi e jeans firmati per il cultore della moda, chiodo nero per il centauro senza moto, capelli lunghi o a spazzola a seconda delle tendenze di famiglia... Quella ragazza, laggiù, nuota nella camicia del padre che sfiora le ginocchia strappate dei suoi jeans, quell'altra ostenta la sagoma nera di una vedova siciliana ("questo mondo non mi concerne più") mentre la sua bionda compagna di banco ha puntato tutto sull'estetica: corpo da cartellone pubblicitario e faccia da copertina accuratamente patinata.
 Sono appena guariti dagli orecchioni e dal morbillo e già si beccano i virus della moda.
E la maggior parte sono anche alti! Gli mangiano in testa, al professore! E grossi, i ragazzi! E le ragazze, già di quelle figurine!
Il professore ha l'impressione che la sua adolescenza fosse più imprecisa... piuttosto mingherlino, lui... robetta del dopoguerra... latte in polvere del piano Marshall... all'epoca era in ricostruzione, il professore, come il resto dell 'Europa...
Loro, invece, hanno facce da risultato.
Questa salute e questo ossequio alle mode conferiscono loro un'aria di maturità che potrebbe intimidire. Le loro pettinature, i loro vestiti, i loro walkman, le loro calcolatrici, il loro lessico, il loro atteggiamento distante, fanno addirittura pensare che potrebbero essere più "adatti" al loro tempo di quanto non lo sia il professore. Saperne molto di più di quanto non ne sappia lui...
Molto di più su che cosa?
E proprio questo l'enigma dei loro volti...
Nulla di più enigmatico di un'aria matura.
Se non fosse un veterano, il professore potrebbe sentirsi espropriato del presente dell'indicativo, un po' passatello... Solo che, ecco... ne ha visti di bambini e di adolescenti in vent'anni di scuola... almeno tremila, se non di più... ne ha viste passare, di mode... tanto che ne ha persino viste tornare!
L'unica cosa di immutabile è il contenuto della scheda personale. L'estetica "frana" in tutta la sua ostentazione: sono pigro, sono scemo, sono uno zero, ho provato in mille modi, non sprecate le vostre forze, il mio passato non ha futuro...
Per farla breve, non si piacciono. E lo proclamano con una convinzione ancora infantile.
Sono fra due mondi, insomma, e hanno perso i contatti con entrambi. Sono "tipi di tendenza", certo, "davvero tosti" (eccome!) ma la scuola "è una pizza", le sue esigenze li "stressano", non sono più dei bambini ma "si rompono" nell'eterna attesa di diventare grandi.
Vorrebbero essere liberi e si sentono abbandonati.

(Daniel Pennac, Come un romanzo, 1992, traduzione di Yasmina Melouah, Feltrinelli).

Dedicato a tutti i miei amici...

Aware 5-12-2008

Dedicato agli inquieti
In ogni goccia di pioggia la mia vita fallita piange nella natura. C'è un po' della mia inquietudine nel goccia a goccia, negli acquazzoni con cui la tristezza del giorno si rovescia inutilmente sulla terra.
Piove tanto, tanto. La mia anima è umida a forza di sentirlo. Tanto...La mia carne è liquida e acquosa intorno alla sensazione che ho di essa.
Un freddo inquieto cinge con gelide mani il mio povero cuore. Le ore grigie e [...] si allungano, si fanno pianura nel tempo; i momenti si trascinano.
Come piove!
Le grondaie vomitano piccoli torrenti d'acqua sempre improvvisa. Scende, sulla mia coscienza di sapere che esistono grondaie, un rumore molesto di caduta d'acqua.
Indolentemente, lamentosamente, la pioggia batte contro la vetrata; [...]
Una mano fredda mi stringe la gola e non mi fa respirare la vita.
Tutto muore in me, persino il sapere che posso sognare! Non sto bene in nessuna posizione. Tutte le cose morbide su cui mi adagio hanno spigoli per la mia anima. Tutti gli sguardi, verso cui guardo, sono così scuri perchè batte su di loro questa luce impoverita del giorno che si lascia morire senza dolore.

(Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 2006, brano num.139)
Claudia 16-12-2008

BUONE FESTE A TUTTI I GUERRIERI
Claudia 24-12-2008

Novembre 2008


Sull’amore
Chi mette il piè su l'amorosa pania,
     cerchi ritrarlo, e non v'inveschi l'ale;
     che non è in somma amor, se non insania,
     a giudizio de' savi universale:
     e se ben come Orlando ognun non smania,
     suo furor mostra a qualch'altro segnale.
     E quale è di pazzia segno più espresso
     che, per altri voler, perder se stesso?

2 Vari gli effetti son, ma la pazzia
     è tutt'una però, che li fa uscire.
     Gli è come una gran selva, ove la via
     conviene a forza, a chi vi va, fallire:
     chi su, chi giù, chi qua, chi là travia.
     Per concludere in somma, io vi vo' dire:
     a chi in amor s'invecchia, oltr'ogni pena,
     si convengono i ceppi e la catena.

3 Ben mi si potria dir: - Frate, tu vai
     l'altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo. -
     Io vi rispondo che comprendo assai,
     or che di mente ho lucido intervallo;
     ed ho gran cura (e spero farlo ormai)
     di riposarmi e d'uscir fuor di ballo:
     ma tosto far, come vorrei, nol posso;
     che 'l male è penetrato infin all'osso.

(Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto XXIV, 1-3)

Aware 3-11-2008

Lavoro a tempo determinato…
Morte-LavoroLow

Posto una vignetta del bravo PV che io trovo amara ma efficace. E' stata presa dal blog del vignettista al link  http://unavignetta.splinder.com/post/16024240/Tempo+determinato
Claudia 6-11-2008



Franz Kafka - Il cavaliere del secchio
Consumato tutto il carbone; vuoto il secchio; inutile la pala; la stufa che respira aria gelida; la stanza gonfia di gelo; davanti alla finestra, gli alberi rigidi nella brina; il cielo, uno scudo d’argento contro chi cerca da lui un aiuto. Devo procurarmi del carbone; non posso certo morire congelato; dietro di me la stufa impietosa, impietoso il cielo davanti a me; perciò devo andare al trotto in mezzo a loro, e nel frattempo, cercare aiuto dal carbonaio. Questi però è ormai indurito contro le mie solite preghiere; devo dimostrargli con chiarezza che non ho più neppure la più piccola particella di carbone, e che dunque lui rappresenta per me il sole nel firmamento. Devo arrivare come il mendicante intenzionato a morire sulla soglia rantolando di fame, e al quale perciò la cuoca si decide a lasciare i fondi dell’ultimo caffè; similmente il carbonaio, pur schiumante di rabbia, ma sotto il raggio del comandamento "Non uccidere!", dovrà scaraventarmi nel secchio un’intera badilata.
Già il mio decollo sarà decisivo; e dunque mi metto a cavalcare sul secchio. Da cavaliere del secchio, la mano in alto sull’impugnatura, che è la briglia più semplice, scendo con difficoltà le curve della scala; quando però sono giù, il mio secchio allora sale splendido, splendido; i cammelli sdraiati bassi per terra, quando il bastone del padrone li incita, non si sollevano con maggiore eleganza. Trottando a velocità adeguata percorro le strade congelate; spesso mi sollevo fino all’altezza del primo piano; non scendo mai fino alle porte d’ingresso. E a straordinaria altezza mi libro sulle arcate della cantina del carbonaio, dove questi sta rannicchiato laggiù al suo tavolino scrivendo; per lasciar defluire l’eccessivo calore ha aperto la porta.
"Carbonaio!" grido con voce arsa e arrochita dal freddo, avvolto dalle nuvole di vapore del mio respiro, "per favore carbonaio, dammi un po’ di carbone. Il mio secchio ormai è tanto vuoto che ci posso cavalcare sopra. Sii buono. Appena posso te lo pago."
Il carbonaio mette la mano all’orecchio. "Ho sentito bene?" chiede da sopra la spalla a sua moglie, che lavora a maglia vicino alla stufa, "ho sentito bene? Ci sono clienti."
"Io non sento proprio niente", dice la donna, respirando tranquilla sopra i ferri, piacevolmente riscaldata sulla schiena.
"Oh sì", grido io, "sono un cliente, un vecchio cliente, un cliente fedele, solamente, per il momento impossibilitato a pagare."
"Moglie", dice il carbonaio, "è così, c’è proprio qualcuno; non posso ingannarmi fino a questo punto; dev’essere un vecchio, un vecchissimo cliente se sa toccarmi così profondamente il cuore."
"Che ti prende, marito?" chiede la donna, e riposandosi un attimo preme sul petto il suo lavoro a maglia, "non c’è proprio nessuno; il vicolo è vuoto; tutti i nostri clienti sono stati riforniti; potremmo anche chiudere il negozio per giorni interi e riposarci."
"Ma io sono qui, seduto sul secchio" grido, e lacrime insensibili di freddo mi velano lo sguardo, "per favore, guardate in su; mi troverete subito; vi prego, datemi una palata di carbone; e se me ne darete due, mi farete felice oltre misura. In fondo, tutti gli altri clienti sono riforniti. Ah, se lo sentissi già risuonare nel secchio!"
"Vengo", dice il carbonaio e con le sue gambe corte vorrebbe già salire le scale della cantina, ma la moglie gli è già vicina, lo ferma prendendogli il braccio e dice: "Resta qui. Se non la finisci con questa idea, salirò io stessa. Ricordati che tosse hai avuto stanotte. Per un affare, e per di più immaginario, dimentichi moglie e figli e metti in pericolo i tuoi polmoni. Vado io." "Allora però digli tutti i tipi di carbone che abbiamo in magazzino; io da sotto ti dirò i prezzi." "Va bene", dice la moglie, e sale nel vicolo. Naturalmente mi vede subito.
"Signora carbonaia", grido, "i miei saluti più devoti; solo una palata di carbone; subito qui nel secchio; me la porto a casa da solo; una palata del peggiore. Naturalmente la pago a prezzo intero, non subito però, non subito." Che suono di campane, nelle due parole "non subito", e come disorienta il loro mescolarsi con le campane serali che proprio ora cominciano a suonare dal vicino campanile.
"Allora, cosa vuole?" grida il carbonaio. "Niente", gli risponde la moglie, "non c’è nessuno; non vedo nessuno, non sento nessuno; solo hanno suonato le sei e noi chiudiamo il negozio. Il freddo è terribile; c’è da prevedere che domani avremo molto lavoro."
Non vede niente e non sente niente; però scioglie il grembiule e agitandolo cerca di soffiarmi via. Purtroppo ci riesce. Il mio secchio ha tutti i vantaggi di qualsiasi buon animale da cavalcare; ma non ha capacità di resistenza; è troppo leggero; basta il grembiule di una donna per cacciarlo a gambe levate.
"Cattiva!" le grido dietro, mentre lei, voltandosi verso il negozio, agita la mano in aria un po’ sprezzante, un po’ soddisfatta di se stessa, "cattiva! Ti ho chiesto una palata di carbone del peggiore e tu non me l’hai data." E dicendo così salgo nelle regioni delle montagne di ghiaccio e mi perdo per non tornare mai più.

(Franz Kafka, Il cavaliere del secchio, da "Durante la costruzione della muraglia cinese")

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Dite un po': non vi sentite anche voi, talvolta, dei personaggi kafkiani? Io sì...
Aware 11-11-2008








Fondamenti di un matrimonio
"(...) Helmer: E potresti anche spiegarmi in che modo ho perduto il tuo amore?
Nora: Sì, te lo spiego. E' stato questa sera quando il miracolo non è accaduto. Allora mi sono accorta che non sei l'uomo che credevo.
H.: Sii più precisa. Non ti capisco.
N.: Per otto anni ho aspettato pazientemente, poiché, mio Dio, capivo anch'io che il miracolo non può accadere tutti i giorni. Poi mi piombò addosso la rovina; e allora ero incrollabilmente convinta che il miracolo sarebbe accaduto. Quando c'era là fuori la lettera di Krogstad...non pensai nemmeno un istante che tu potessi accettare le condizioni di costui. Ero fermamente persuasa che gli avresti obiettato: fallo pure sapere al mondo intero! E dopo di ciò...
H.: Ebbene? Se avessi esposto mia moglie alla vergogna e all'ignominia?...
N.: In questo caso, così credevo fermissimamente, ti saresti fatto avanti caricando tutto sulle tue spalle e dicendo: il colpevole sono io.
H.: Nora!
N.: Credi che avrei mai accettato da te un simile sacrificio? No, beninteso. Ma a cosa sarebbero valse le mie assicurazioni di fronte alle tue? Questo era il miracolo che speravo con angoscia e ansietà. E per impedirlo mi sarei tolta la vita.
H.: Nora, con gioia lavorerei giorno e notte per te, sopporterei dolori e preoccupazioni. Ma nessuno sacrifica il suo onore per coloro che ama!
N.: Lo hanno fatto centomila donne!
H.:Ahimè, tu pensi e parli come una bambina irragionevole.
N.: Può darsi. Ma tu, tu non pensi né parli come colui al quale potrei unirmi. Quando fu placata la tua angoscia non per ciò che minacciava me, ma per ciò che avrebbe potuto colpire te, quando ogni pericolo fu passato...facesti come se non fosse successo niente...Come sempre ridiventai la lodoletta, la tua bambola che intendevi portare in palma di mano con raddoppiata cautela perchè era tanto debole e fragile. Torvald, in quel momento ho avuto l'intuizione di aver abitato qui otto anni con un estraneo e di aver avuto con lui tre figlioli. Oh, non ci devo pensare! Mi farei a brani."


(H. Ibsen, Casa di bambola, trad. di Ervino Pocar, Oscar Classici Mondadori)
Claudia 19-11-2008





Catullo-carme LI
CATULLO - CARME LI

A me pare che pari agli dei,
anzi forse, se è lecito, che li superi,
sia chi, sedendoti di fronte, senza posa
ti mira e ti ascolta,

mentre con dolcezza sorridi, quando a me, sventurato,
questo ogni senso mi sradica: e infatti non appena su te
poso gli occhi, Lesbia, non v'è più
voce a me in gola
,

ma la lingua s'intorpida, sottile nell'ossa
scorre una fiamma, d'un proprio suono
sento ronzare le orecchie, e d'una duplice notte
si rivestono gli occhi.

L'ozio, Catullo, ti fa male:
nell'ozio esulti e t'agiti troppo.

L'ozio, un tempo, ha perduto fiorenti
città e re.

(Catullo, Liber, LI, liberamente ispirato a una poesia di Saffo, mia traduzione)

Sì, sono soprattutto i sorrisi che fanno innamorare. L'ho capito nell'ultimo mese, scoprendone uno straordinario, che davvero mi copre gli occhi d'una duplice notte per trascinarmi nel sogno...
Aware 22-11-2008

Linguaggio cifrato…
ScuolaAltra vignetta di PV per cominciare la giornata col sorriso. Non so se i ragazzi si esprimano così durante un'interrogazione ma questo scambio di battute mi fa ridere..."No-end"...Ho pensato a tutti i docenti di lettere.
Il sito di pv lo trovate tra i link a sinistra, come sempre.
Claudia 23-11-2008









Antefatto:il simbolo.
(…) “Il simbolo è sempre un prodotto di natura assai complessa, poiché si compone dei dati e di tutte le funzioni psichiche. Per conseguenza esso non è né di natura razionale né irrazionale.” [1][1]  In altre parole esso attiva l’intero essere umano e costituisce il ponte che collega i diversi territori della psiche. E’, sostiene Jung, l’unificatore degli opposti, un mezzo capace di esprimere quelle possibilità di sviluppo (intuizione) che non hanno altre opportunità di manifestarsi.
Il simbolo è vivo finché è pregno di significato, possiede ulteriori risorse di trasformazione sia dell’individuo sia della coscienza collettiva. Quando tale carica si esaurisce perché ha manifestato tutte le sue innumerevoli funzioni, il simbolo muore e decade a mero “segno” e di esso non rimane che il valore storico. (…)
(…) l’incapacità di accedere alla dimensione simbolica dell’esperienza impedisce il progresso del pensiero e delle facoltà creative. Le equazioni simboliche possono lo stesso irrompere nell’arte ma “gli artisti in special modo, quando sono artisti riusciti, combinano un’enorme capacità di usare simbolicamente il materiale per esprimere le loro fantasie inconsce con un senso estremamente acuto delle caratteristiche reali del materiale che usano. Senza quest’ultima capacità, riuscirebbe loro impossibile servirsi efficacemente di esso per comunicare il significato simbolico cui vogliono dar corpo.”[2][2] Insomma, nell’attività artistica si tratta di saper contenere gli aspetti primitivi dell’attività psichica, compresi quelli che la Segal definisce “equazioni simboliche”. (…)

(Giuseppe Pansini, Il cavallo di Ulisse. Tra Freud e Jung un progetto per la psicologia dell’arte, Franco Angeli, Milano 2000, pp.132-133.)


Claudia 30-11-2008



[1][1] C. G. Jung, Tipi psicologici, in “Opere”, vol. VI, Boringhieri, Torino 1981, pag. 488.
[2][2] H. Segal, Sogno, fantasia e arte, raffaello Cortina ed., Milano 1991, pag.49.