venerdì 17 febbraio 2012

Marzo 2009


Amleto-atto III-scena I
(Entra Amleto:)
Essere o non essere? Questo è il problema:
se sia forse più nobile soffrire, nell'intimo del proprio spirito,
le pietre e i dardi scagliati dall'oltraggiosa fortuna,
o imbracciar l'armi, invece, contro il mare delle afflizioni,
e, combattendo contro di esse, metter loro una fine. Morire, dormire.
Nient'altro. E con quel sonno poter calmare
i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese naturali
di cui è erede la carne: quest'è una conclusione
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare. È proprio qui l'ostacolo:
perché in quel sonno di morte, tutti i sogni che possan sopraggiungere
quando noi ci siamo liberati dal tumulto, dal viluppo di questa vita mortale,
dovranno indurci a riflettere. È proprio questo scrupolo
a dare alla sventura una vita così lunga!
Perché, chi sarebbe capace di sopportare le frustate e le irrisioni del secolo,
i torti dell'oppressore, gli oltraggi dei superbi,
le sofferenze dell'amore non corrisposto, gli indugi della legge,
l'insolenza dei potenti e lo scherno che il merito paziente
riceve dagli indegni, se potesse egli stesso dare a se stesso la propria quietanza
con un nudo pugnale? Chi s'adatterebbe a portar cariche,
a gèmere e sudare sotto il peso d'una vita grama,
se non fosse che la paura di qualcosa dopo la morte
– quel territorio inesplorato dal cui confine
non torna indietro nessun viaggiatore – confonde e rende perplessa la volontà,
e ci persuade a sopportare i malanni che già soffriamo
piuttosto che accorrere verso altri dei quali ancor non sappiamo nulla.
A questo modo, tutti ci rende vili la coscienza,
e l'incarnato naturale della risoluzione
è reso malsano dalla pallida tinta del pensiero,
e imprese di gran momento e conseguenza,
deviano per questo scrupolo le loro correnti,
e perdono il nome d'azione. Zitto, ora:
la bella Ofelia! Ninfa, nelle tue preghiere
intercedi per me, peccatore.

(William Shakespeare)

Non so voi, ma ogni volta che rileggo o recito di nuovo questo monologo ad alta voce, è come se avesse un effetto catartico, su di me...
Aware 1-3-2009





Liberarsi
Chi sei?
Tu che giudichi te stessa.
Sì, testa a partito
non muovi un dito,
e gridi dentro repressa,
di una felicità concessa,
alla consuetudine della vita.
Ridi con felicità al tuo dolore,
ad ogni rintocco di ora,
al bell'aspetto finché dura
e alla paura di una pianta in autunno
che di ripresa più non parla
e giace incolta in una smorfia di dolore.
Chi sei tu?
Esterno brio, che soffochi e nascondi
all'ombra del solo pensiero,
quel che vorresti fosse vero.

(Mimmo Garriba, In silenzio. Pensieri, Ed. Giuseppe Laterza, Bari, 1998)
Claudia 8-3-2009





Il materialismo etico
Se le valutazioni teoriche (vero e falso) sono puramente convenzionali, le valutazioni morali (bene e male) sono puramente soggettive, cioè relative all'individuo singolo e alle situazioni in cui l'individuo viene a trovarsi. Non c'è nulla che sia assolutamente buono o cattivo e non c'è una norma che valga a distinguere assolutamente il bene dal male; giacché queste determinazioni non sono inerenti alla natura delle cose, ma  dipendono dagli individui, dove non esiste lo Stato; o, dove c'è lo Stato, dalla persona che lo rappresenta o da un arbitro o giudice che gli individui in disaccordo tra loro scelgono affinché la sua sentenza serva loro di legge. In generale, si chiama bene ciò che si desidera, male ciò che si odia; e poiché il raggiungimento di ciò che si desidera procura  piacere, e il piacere aumenta e rafforza il movimento della vita, così le cose che danno piacere si chiamano pure giovevoli e belle. Quando nella mente dell'uomo si alternano desideri diversi ed opposti, speranze e timori, e si presentano le conseguenze buone e cattive di un'azione possibile, si ha quello stato che si chiama di deliberazione.

Esso termina nell'atto della volontà che decide di agire o non agire. La volontà conclude temporaneamente i dubbi, le oscillazioni, le incertezze dell'uomo; ma questi rinascono subito, giacché l'uomo non può raggiungere uno stato definitivo dì tranquillità e di quiete. Perciò non si può parlare di un sommo bene e di un fine ultimo nella presente vita dell'uomo. Un fine ultimo sarebbe tale che, dopo di esso, nient'altro dovrebbe essere desiderato.

Ma poiché, il desiderio si accompagna necessariamente alla sensibilità, l'uomo che avesse raggiunto il fine ultimo non solo non desidererebbe più nulla, ma neppure sentirebbe e quindi non vivrebbe affatto. «La vita, dice Hobbes (L’uomo,11), è un movimento incessante che, quando non può continuare in linea retta si trasforma in moto circolare».



Nella vita umana così intesa, non c'è posto per la libertà. Hobbes definisce la libertà come «l'assenza di tutti gli impedimenti all'azione che non sono contenuti nella natura e nell'intrinseca qualità dell'agente». Questa definizione riduce la libertà alla libertà d’azione, che c'è quando la volontà non è impedita nelle sue manifestazioni esteriori, ma nega la libertà del volere. Quando un uomo ha appetito o volontà di qualche cosa dicui nell'istante anteriore non aveva né appetito né volontà, la causa della sua volontà non è la volontà stessa, ma qualcosa di diverso, che non dipende da lui.

La stessa volontà è dunque causata necessariamente da altre cose: in quanto hanno cause necessarie, le azioni umane sono necessitate. Hobbes, che ha chiarito e difeso il suo determinismo nella polemica col vescovo Bramhall, insiste sul fatto che la volontà è intrinsecamente necessitata dalle cause e dai motivi che le sono inerenti, motivi che in ultima analisi sono dovuti alla totalità della natura, giacché tutti gli atti dello spirito umano (compresa la deliberazione e la volontà) sono movimenti connessi degli oggetti esterni. “Difficilmente v’è qualche azione che, per quanto sembri casuale, non sia prodotto da tutto ciò che esiste in natura”.

(Hobbes)
Aware 11-3-2009

Piccola mela
Francesco De Gregori
PICCOLA MELA
 

da "Rimmel", 1975


Mi metto in tasca una piccola mela...
mi metto in tasca una piccola mela.
Ti portassero in piazza
con chiodi e catene,
se davvero non sei sincera!

La figlia del dottore è una maestrina...
la figlia del dottore è una maestrina.
E conosce a memoria
tutti i libri di Omero:
li ripassa tre volte la mattina.

Mi metto in tasca un piccolo fiore...
mi metto in tasca un piccolo fiore.
Ti legassero stretta
alla quercia più vecchia,
se davvero non vuoi il mio cuore!

La figlia del dottore sa cantare!...
la figlia del dottore sa cantare.
E mi piace, poi, tanto,
quel suo modo di fare...
forse un giorno faremo l'amore!


E' primavera, sapete... sto felice e canterino, in questi giorni... l'amore (Sì, ma per chi? Devo ancora capirlo bene!), l'arte, la bellezza... e fra dieci giorni... Praga!
Aware 18-3-2009

Arguti battibecchi
BEATRICE: Mi meraviglio che parliate ancora, signor Benedetto: nessuno vi bada.
BENEDETTO: Oh, la mia cara signora Sdegnosità! Siete ancora viva?
BEATRICE: E' possibile che muoia la Sdegnosità, quando a nutrirla trova un cibo come il signor Benedetto? La cortesia stessa diventerebbe sdegnosità se voi le capitaste davanti.
BENEDETTO: Allora la cortesia è una voltagabban. Comunque è sicuro che tutte le donne mi amano, eccetto voi. E in fondo al cuore mi piacerebbe pensare che non sono senza cuore, perché per la verità non ne amo nessuna.
BEATRICE: Una bella fortuna per le donne, che altrimenti sarebbero state seccate da un corteggiatore importuno. Ringrazio Dio e il mio sangue frigido che in questo sono uguale a voi; preferisco sentire il mio cane abbaiare a una cornacchia che un uomo giurarmi amore.
BENEDETTO: Che Dio conservi sempre la signoria vostra di questo parere, così qualche gentiluomo scamperà al destino di aver la faccia graffiata.
BEATRICE: I graffi la peggiorerebbero ben poco, se fosse una faccia come la vostra.
BENEDETTO: Già! E voi siete bravissima ad ammaestra pappagalli.
BEATRICE: Meglio un uccello con la mia lingua che un bestione con la vostra.
BENEDETTO: Vorrei che il mio cavallo fosse veloce e infaticabile come la vostra lingua. Ma andate per la vostra strada, in nome di Dio: io ho finito.
BEATRICE: Finite sempre con una sgroppata da ronzino: è un pezzo che vi conosco.

(William Shakespeare, Molto rumore per nulla, I, 1, traduzione di Maura del Serra, NewtonCompton editori)
Aware 22-3-2009





Io vorrei vivere addormentato
SANDRO PENNA

Io vivere vorrei addormentato

Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita.

(Sandro Penna, Poesie)
Sto per partire... statemi tutti bene!

Aware 27-3-2009



<<Il lunedì seguente Serena non viene a scuola. Le ragazze dicono che non tornerà più perché sua madre è stata arrestata: Per droga eccetera, e ora Serena dovrà andare ad abitare con la nonna in Georgia dove, dicono, ai neri li trattano da negri. Secondo loro non ci resisterà un minuto. A forza di rispondere ai bianchi si ficcherà subito nei guai. E questo perché non ha peli sulla lingua, professore.
Senza Serena la classe si trasformò, divenne un corpo senza testa. Maria alzò la mano e mi chiese perché parlavo in quel modo strano. Ero sposato? Avevo figli? Che preferivo, Amleto o Una scommessa in fumo? Perché ero diventato professore?
Stavano costruendo dei ponti che potevamo attraversare avanti e indietro; io rispondevo alle loro domande e non me ne fregava più niente se raccontavo troppe cose di me stesso. Con quanti preti mi ero già confessato all’età loro? L’importante era che quelle ragazzine adesso stavano attente.
Un mese dopo la partenza di Serena ci furono due bei momenti. Claudia alzò la mano e disse: Professore, sei proprio simpatico. La classe annuì – infatti, infatti – e i due ragazzi portoricani in fondo all’aula sorrisero. Poi alzò la mano Maria. Professore, m’è arrivata una lettera di Serena. Dice che è la prima lettera che scrive in vita sua e se non glielo diceva sua nonna manco la scriveva. Lei sua nonna non l’aveva mai vista però gli vuole bene lo stesso perché non sa né leggere né scrivere e Serena gli legge la Bibbia tutte le sere. E adesso professore reggiti forte, dice che vuole finire le superiori e andare all’università per fare la maestra. Insegnare ai ragazzi grandi come noi no, perché siamo solo una rottura, invece i bambini non rispondono male. E poi si scusa per tutte le cose che ha fatto in questa classe e dice che te lo devo dire. Un giorno dice che scrive pure a te.
Dentro di me scoppiano i fuochi d’artificio, cento volte Capodanno e cento volte il Quattro luglio.>>


(F. McCourt, Ehi, prof!, Ed.Adelphi, Milano, 2008, pp.180-181)
Claudia 30-3-2009

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