venerdì 17 febbraio 2012

Settembre 2008


1

L'idea dell'eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell'imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l'abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all'infinito! Che significato ha questo folle mito?
Il mito dell'eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un'ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla. Non occorre tenerne conto, come di una guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo che non ha cambiato nulla sulla faccia della terra, benché trecentomila negri vi abbiano trovato la morte tra torture indicibili.
E anche in questa guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo, cambierà qualcosa se si ripeterà innumerevoli volte nell'eterno ritorno?
Sì, qualcosa cambierà: essa diventerà un blocco che svetta e perdura, e la sua stupidità non avrà rimedio.
Se la Rivoluzione francese dovesse ripetersi all'infinito, la storiografia sarebbe meno orgogliosa di Robespierre. Dal momento, però, che parla di qualcosa che non ritorna, gli anni di sangue si sono trasformati in semplici parole, in teorie, in discussioni, sono diventati più leggeri delle piume, non incutono paura. C'è un’enorme differenza tra un Robespierre che si è presentato una sola volta nella storia e un Robespierre che torna eternamente a tagliare la testa ai francesi.
Diciamo quindi che l'idea dell'eterno ritorno indica una prospettiva dalla quale le cose appaiono in maniera diversa da come noi le conosciamo: appaiono prive della circostanza attenuante della loro fugacità.
Questa circostanza attenuante ci impedisce infatti di pronunciare un qualsiasi verdetto. Si può condannare ciò che è effimero? La luce rossastra del tramonto illumina ogni cosa con il fascino della nostalgia: anche la ghigliottina.
Or non è molto, mi sono sorpreso a provare una sensazione incredibile: stavo sfogliando un libro su Hitler e mi sono commosso alla vista di alcune sue fotografie: mi ricordavano la mia infanzia; io l'ho vissuta durante la guerra; parecchi miei familiari hanno trovato la morte nei campi di concentramento hitleriani; ma che cos'era la loro morte davanti a una fotografia di Hitler che mi ricordava un periodo scomparso della mia vita, un periodo che non sarebbe più tornato?
Questa riconciliazione con Hitler tradisce la profonda perversione morale che appartiene a un mondo fondato essenzialmente sull'esistenza del ritorno, perché in un mondo simile tutto è già perdonato e quindi tutto è cinicamente permesso.

2

Se ogni secondo della nostra vita si ripete un numero infinito di volte, siamo inchiodati all'eternità come Gesù Cristo alla croce. È un'idea terribile. Nel mondo dell'eterno ritorno, su ogni gesto grava il peso di una insostenibile responsabilità. Ecco perché Nietzsche chiamava l'idea dell'eterno ritorno il fardello più pesante (das schwerste Gewicht).
Se l'eterno ritorno è il fardello più pesante, allora le nostre vite su questo sfondo possono apparire in tutta la loro meravigliosa leggerezza.
Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza è meravigliosa?
Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d'amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell'uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l'immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica.
Al contrario, l'assenza assoluta di un fardello fa sì che l'uomo diventi più leggero dell'aria, prenda il volo verso l'alto, si allontani dalla terra, dall'essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato.
Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza?
Questa domanda se l'era posta Parmenide nel sesto secolo avanti Cristo. Egli vedeva l'intero universo diviso in coppie di opposizioni: luce-buio, spesso-sottile, caldo-freddo, essere-non essere. Uno dei poli dell'opposizione era per lui positivo (la luce, il caldo, il sottile, l'essere), l'altro negativo. Questa suddivisione in un polo positivo e in uno negativo può apparirci di una semplicità puerile. Salvo in un caso: che cos'è positivo, la pesantezza o la leggerezza?
Parmenide rispose: il leggero è il positivo, il pesante è negativo.
Aveva ragione oppure no? Questo è il problema. Una sola cosa era certa: l'opposizione pesante-leggero è la più misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni.

(Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere, 1984, Adelphi editore)
Aware 8-9-2008



Circe uscì tosto con in man la verga,
E della stalla gl'infelici trasse,       495
Che di porci novenni avean l'aspetto.
Tutti le stavan di rincontro; e Circe,
D'uno all'altro passando, un prezïoso
Sovra lor distendea benigno unguento.
Gli odiati peli, che la tazza infesta       500
Produsse, a terra dalle membra loro
Cadevano; e ciascun più che non era,
Grande apparve di corpo, e assai più fresco
D'etade in faccia, e di beltà più adorno.

(Ippolito Pindemonte, traduzione dell'Odissea)

L'imperio dei sensi ci fa porci: con l'unguento magico della ragione e della parola, sua espressione, torniamo uomini.
Aware 15-9-2008

L’ennui
Sherlock Holmes prese il suo flacone dall’angolo della mensola del caminetto e la sua siringa ipodermica da un elegante astuccio di marocchino. Con le dita lunghe e nervose infilò l’ago sottile e arrotolò la manica sinistra della camicia. Per un po’, osservò pensoso l’avambraccio muscoloso e il polso, costellati di innumerevoli segni di punture. Alla fine, infilò con gesto deciso la siringa, premette il pistone e si abbandonò nella poltrona di velluto con un lungo sospiro di soddisfazione.
Da mesi, ormai, assistevo tre volte al giorno a quella scena, ma ancora non riuscivo ad abituarmici. Anzi, ogni giorno che passava, mi irritava sempre di più e ogni notte mi rimordeva la coscienza al pensiero che non avevo il coraggio di protestare. Infinite volte mi ero solennemente ripromesso di dirgli quello che pensavo al riguardo; ma nell’atteggiamento noncurante e distaccato del mio compagno c’era qualcosa che lo rendeva l’ultimo uomo al mondo con il quale si potesse osare di prendersi delle sia pur vaghe libertà. Le sue grandi qualità, i suoi modi imperiosi e l’esperienza che avevo avuto delle sue doti eccezionali, mi rendevano titubante e restio a contrariarlo.
Ma quel pomeriggio, forse per il Beaune che avevo bevuto a pranzo o forse perché ero esasperato più del solito dalla deliberatezza del suo gesto, sentii all’improvviso di non potermi trattenere oltre.
“Cos’è oggi”, gli chiesi, “morfina o cocaina?”
Alzò languidamente lo sguardo dal vecchio volume in caratteri gotici che aveva aperto.
“Cocaina”, rispose, “soluzione al sette per cento. Vuole provarla?”
“No di certo”, risposi brusco. “Il mio fisico non si è ancora ripreso dopo la campagna afgana. Non posso permettermi di sottoporlo ad altri sforzi.”
Sorrise alla mia veemenza. “Forse ha ragione, Watson”, disse. “Immagino che, fisicamente, la sua influenza sia negativa. La trovo però così incredibilmente stimolante e così chiarificante per il cervello che il suo effetto secondario ha davvero poca importanza.”
“Ma consideri un momento!”, gli dissi molto seriamente. “Consideri il costo! Può darsi che, come lei dice, le schiarisca la mente, la renda più acuta, ma si tratta di un processo patologico e morboso che comporta un’accelerazione del ricambio tessutale e può quanto meno procurare una debilitazione permanente. Inoltre sa bene come, dopo, lei abbia una reazione negativa. Per quale motivo, in nome di un piacere transitorio, dovrebbe rischiare di perdere quelle grandi facoltà di cui madre natura l’ha dotato? Ricordi che non le sto parlando solo da amico a amico, ma da medico a paziente della cui salute è sotto certi aspetti responsabile.”
Non parve offeso. Anzi, riunì le punte delle dita poggiando i gomiti sui braccioli della poltrona, come una persona che ha voglia di fare conversazione.
“La mia mente”, rispose, “si ribella all’inerzia. Mi dia dei problemi, mi dia del lavoro, mi dia il crittogramma più astruso o l’analisi più complicata, e allora mi sento a mio agio. Posso fare a meno di stimolazioni artificiali. Ma aborrisco la monotona routine dell’esistenza. Ho un desiderio inestinguibile di esaltazione mentale. Ecco perché ho scelto questa mia particolare professione o, meglio, l’ho creata, poiché sono l’unico al mondo ad esercitarla”.
“L’unico investigatore ufficioso?”, chiesi inarcando le sopracciglia.
“L’unico consulente investigativo ufficioso,” rispose. “Nel campo investigativo sono l’ultima e la più alta corte d’appello. Quando Gregson, o Le strade, o Athelney Jones brancolano nel buio – il che, fra parentesi, è la loro condizione normale – mi espongono il fatto. Io esamino i dati, da esperto, e esprimo un parere specialistico. Sono casi per i quali non chiedo alcun credito. Il mio nome non appare su nessun giornale. Il lavoro in sé, la soddisfazione di trovare un terreno adatto alle mie particolari facoltà, è la massima ricompensa cui aspiro.”
(Arthur Conan Doyle, Il segno dei quattro, Traduzione di Nicoletta Rosati Bizzotto, Newton Compton editore)
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Che noia, la scuola!
Aware 23-9-2008

L’irreparabilità in Blondel
<<[...] Le relazioni reali, diversamente da quelle formali, sono organiche all'infinito, sempre infallibilmente riflesse e integrate, perciò queste irreparabili perdite ci costituiscono, sono noi e continuano ad esserlo senza soluzione di continuità: quel che siamo e abbiamo, lo siamo e lo abbiamo anche in ragione di quel che abbiamo perduto o lasciato andare. Anzi, è proprio quel che abbiamo perduto che portiamo più intimamente con noi: nulla esce da noi senza penetrarvi ancor più intimamente>>.

(Meattini Valerio, Filosoficamente abita l'uomo. Etica e conoscenza, Ed. Giuseppe Laterza, Bari 2005, pag.40)
Claudia 27-9-2008

…e ritrovarsi.
Se qualcuno gli avesse domandato: "Ben, ti senti solo?", avrebbe osservato quel qualcuno con sincero stupore. L'ipotesi non gli era mai balenata. Non aveva amici, ma aveva i suoi libri e i suoi sogni; aveva i suoi modellini Revell; aveva un set gigantesco di Lincoln Log, con il quale costruiva di tutto. Sua madre aveva dichiarato più di una volta che le case edificate da Ben con il Lincoln Log erano migliori di alcune costruzioni autentiche scaturite da progetti di autentici architetti. Possedeva anche un ottimo Erector Set e sperava che per il suo compleanno, in ottobre, avrebbe ricevuto iostruire un orologio che segnava veramente le ore e un'automobile con vere marce all'interno. Se si sentiva solo? avrebbe forse ripetuto, sconcertato. Come? Cosa?
Un bambino cieco dalla nascita non sa nemmeno di esser cieco finché non glielo dice qualcuno. Anche allora si crea un concetto perlopiù accademico di che cosa possa essere la cecità. Solo chi ha perduto la vista può averne un'idea chiara. Ben Hanscom ignorava il significato di solitudine, perché quella era da sempre l'unica dimensione della sua vita. Se la condizione fosse stata nuova o più localizzata, avrebbe potuto capire, ma la solitudine racchiudeva la sua vita e la travalicava. C'era semplicemente, apparteneva alla sua esistenza come il pollice che gli si piegava all'indietro o quella buffa piccola sporgenza che aveva dietro un incisivo, la punta che la sua lingua cominciava a tormentare tutte le volte che era nervoso.

(Stephen King, It, 1987, Sperling & Kupfer editori, traduzione di Tullio Dobner, pag. 190)
Aware 29-9-2008

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