venerdì 17 febbraio 2012

Agosto 2008


Maternità

Le mani della Madre


Tu non sei più vicina a Dio
di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare in te dal manto,
luminoso contorno: io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta.  
(Rainer Maria Rilke)
Dedicato a mia cognata e a mia nipote, da me tanto amata prima ancora che nascesse.
Claudia 1-8-2008
Ho sempre amato il "Tonio Kroger" di Thomas Mann, fin da quando, l'estate scorsa, lo lessi per la prima volta nello stesso luogo dove l'ho riletto giusto l'altro ieri, il luogo dal quale ieri sono tornato. Vi trovo certi passi a me molto vicini, quasi autobiografici. Vi propongo i due a mio parere più belli, in questo giorno di grande importanza storica, simbolica e, almeno per me, affettiva.

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IV

«Disturbo?» domandò Tonio Kröger sulla soglia dello studio. Teneva il cappello in mano e s'inchinò persino un poco, sebbene Lisaveta Ivanovna fosse l'antica cui raccontava tutto.
«Ma per carità, Tonio Kröger, entri pure senza far cerimonie!» gli rispose con il suo accento saltellante. «È noto che lei ha goduto d'una buona educazione e che sa comportarsi.» Parlando infilò i pennelli nella mano sinistra dov'era la tavolozza, gli porse la destra e lo guardò in viso scuotendo il capo.
«Va bene, ma lei sta lavorando,» disse. «Mi faccia un po' vedere... Oh, ha fatto progressi.» E si mise ad osservare alternativamente gli schizzi a colore, appoggiati su due sedie ai lati del cavalletto, e la grande tela, ricoperta da una graticola quadrettata, su cui dal bozzetto a carboncino, confuso e schematico, cominciavano ad emergere le prime chiazze colorate.
Accadeva a Monaco, in un edificio a tergo della Schellingstrasse, su, molti piani in alto. Fuori, oltre il largo lucernario, dominavano blu cielo, cinguettio d'uccelli e raggi di sole, e l'alito dolce della primavera, penetrando da una ribalta aperta, si mischiava con l'odore del fissativo e dei colori ad olio che riempiva il grande studio. La luce dorata del chiaro pomeriggio inondava liberamente la nudità minuziosa dell'atelier, illuminava a distesa il pavimento un po' deteriorato, il tavolo sotto la finestra, rustico, coperto di bottigliette, di tubi e di pennelli, e gli studi senza cornice appesi alle pareti non tappezzate, illuminava il paravento di seta screpolata, che vicino alla porta delimitava un angoletto soggiorno e riposo ammobiliato con gusto, illuminava l'opera in fieri sul cavalletto e, davanti, la pittrice e lo scrittore.
Poteva avere all'incirca l'età di lui, cioè un po' di là dalla trentina. Vestita con un camiciotto blu scuro, impiastricciato, se ne stava seduta su uno sgabello basso appoggiando il mento alla mano. I capelli scuri, pettinati lisci e appena brizzolati alle parti, coprivano le tempie con lievi onde verticali, incorniciando quel viso bruno dai lineamenti slavi e infinitamente simpatico, il naso camuso, gli zigomi molto sporgenti e gli occhi piccoli, neri e lustri. Attenta, diffidente e quasi eccitata stava squadrando, di sghembo e a occhi socchiusi, il proprio lavoro...
Lui le stava accanto, la mano destra poggiata sul fianco e la sinistra intenta ad arricciare in fretta i baffi scuri. I sopraccigli erano agitati da un movimento cupo e affaticato mentre, come al solito, lui fischiettava piano. Era vestito in modo molto accurato e solido, un abito grigio morto, dal taglio distinto. Sulla fronte rugosa, però, dove semplici e ordinati, si spartivano i capelli scuri, c'era uno spasimo nervoso, i lineamenti del viso meridionale erano netti, quasi come ripassati e marcati con una dura, mentre la bocca appariva dai contorni delicati e il mento dalla forma sensibile... Dopo un po', passatasi la mano sulla fronte e sugli occhi, si voltò.
«Non sarei dovuto venire,» disse.
«E perché no, Tonio Kröger?»
«Ho appena smesso di lavorare, Lisaveta, e mi sento la testa proprio come si vede su questa tela. Un telaio, un abbozzo scialbo, pasticciato di correzioni e un paio di macchie di colore, anche; me ne vengo qui, e vedo la stessa cosa. E ci ritrovo pure i conflitti e i contrasti,» disse annusando l'aria, «che mi tormentavano a casa. Strano, non appena un pensiero ti domina, ecco che te lo trovi enunciato dappertutto, lo fiuti persino nel vento. Fissatore e aroma primaverile, no? Arte e... ma che cos'è l'altro? Non dica "natura", Lisaveta, "natura" non dice tutto. A passeggio me ne sarei dovuto andare, ecco, per quanto non è certo che me la sarei passata meglio! Non lontano da qui, saranno cinque minuti, ho incontrato un collega, Adalbert, il novellista. "Maledizione alla primavera!" ha detto in quel suo stile aggressivo. "È e resta la stagione più orribile! Può lei, Kröger, concepire un pensiero ragionevole, può elaborare tranquillo un momento d'effetto se il sangue le formicola in un modo indecente e la turbano innumerevoli sensazioni estranee che, non appena si esaminino, si rivelano roba notoriamente banale e del tutto inutilizzabile? Per quanto mi riguarda, ora me ne vado al caffé. Quello è territorio neutrale, inviolato da cambiamenti di stagione, e rappresenta, vede, per così dire, la sfera estatica e sublime della letteratura, nella quale si è capaci solo di idee distinte..." E se n'è andato al caffè; e forse sarei dovuto andare con lui.»
Lisaveta si divertiva.
«Buona quella, Tonio Kröger. Quella del "formicolio indecente" è buona davvero. E in un certo senso ha ragione, perché in primavera, sul serio, il lavoro non va tanto bene. Ma ora stia attento. Ora, nonostante tutto, finisco ancora una cosetta, questo piccolo momento d'effetto, come direbbe Adalbert. Poi ce ne andiamo nel "salotto" a prendere il tè, così lei può sfogarsi; in fondo, lo vedo bene che lei si sente carico. Intanto si sistemi un po' in un posto qualsiasi, per esempio su questa cassa, se non teme di sciupare il suo vestito patrizio...»
«Ma lasci in pace il vestito, Lisaveta Ivanovna! Vorrebbe che me ne andassi in giro con una casacca di velluto tutta strappata o con un panciotto di seta rossa? Come artisti si è sempre abbastanza avventurieri internamente. Esternamente ci si deve vestire bene, perbacco, e comportarsi da persone ammodo... No, carico non lo sono,» disse guardandola mentre stava masticando sulla tavolozza «Lo sente bene anche lei che è solo un problema di contrasti quello che ho in testa e mi disturbava durante il lavoro... Ma di che stavamo parlando? Di Adalbert, del novellista e di che uomo altero e duro sia. "La primavera è la stagione più orribile," ha detto, e poi se n'è andato al caffé. Perché si ha da sapere quanto si vuole, le pare? Guardi, la primavera rende nervoso anche me, la soave banalità di ricordi e di sensazioni che essa desta, sconcerta anche me; solo che non so decidermi, per tale motivo, a biasimarla e disprezzarla; perché, questo è il fatto, di fronte ad essa mi vergogno, mi vergogno della sua disinvoltura schietta e della sua giovinezza vittoriosa. E non so se invidiare o disprezzare Adalbert, perché non ne sa nulla... In primavera si lavora male, certo, e per qual motivo? Perché si sente. E perché è un superficiale chi crede che il creatore debba sentire. Ogni artista autentico e leale sorride, malinconicamente forse, ma sorride per l'ingenuità di questo errore da pasticcioni. In quanto quel che si esprime non può mai essere l'essenza, bensì soltanto la materia, di per sé indifferente, da cui ha da formarsi, con superiorità facile e pacata, l'immagine estetica. Se ci si tiene troppo a quel che s'ha da esprimere, se il cuore pulsa con troppo impeto, allora si può esser certi del fiasco completo. Se si diventa patetici, se si diventa sentimentali, sorge sotto le mani un che di pesante, tragicomico, superbo, grave, insipido, noioso, trito, e la fine non è altro che indifferenza nella gente, nient'altro che delusione e affanno in se stessi... Ecco com'è, Lisaveta: il sentimento, il sentimento caldo, sincero è sempre trito e ritrito e inutilizzabile, mentre artistiche lo sono puramente le eccitazioni e le estasi frigide del nostro sistema nervoso, logoro ed estetizzante. Bisognerebbe essere non so che di sovrumano e di mostruoso, avere con l'umanità rapporti stranamente distaccati e neutrali per essere in grado, e soprattutto essere tentati, di spacciarlo, di fingerlo, di esporlo con efficacia e con gusto. L'attitudine per stile, forma ed espressione implica già questo rapporto freddo e sofistico verso l'umanità, persino un certo depauperamento e un certo squallore naturali. Perché il sentimento sano e forte, c'è poco da dire, gusto non ne ha. L'artista sparisce non appena diventi uomo e cominci ad aver sensibilità. Adalbert lo sapeva e se n'è andato al caffé, nella "sfera estatica", ecco!»
«Bene, che Dio l'accompagni, batjuska,» disse Lisaveta lavandosi le mani in un catino, «lei non ne ha certo bisogno di seguirlo.»
«No, Lisaveta, non lo seguo, e precisamente perché di tanto in tanto sono in grado di vergognarmi un po' della primavera della mia coscienza artistica. Vede, a volte ricevo lettere da estranei, missive di lode e di gratitudine del mio pubblico, scritti pieni d'ammirazione di gente commossa. Leggendo quegli scritti, mi sento a poco a poco turbato al cospetto del sentimento caldo, umano e goffo provocato dalla mia arte, mi prende una specie di compassione di fronte all'ingenuità entusiasta che vi si legge tra le righe, e arrossisco pensando quanta delusione proverebbe quell'uomo dabbene se mai desse uno sguardo dietro le quinte, se mai capisse che un uomo leale, sano e onesto non scrive, non mima, non compone affatto... cose tutte, però, che non m'impediscono di valermi della sua ammirazione verso il mio ingegno, per migliorarmi e stimolarmi, di prenderla con serietà enorme, facendo, per l'occasione, le smorfie d'una scimmia che interpreta il grand'uomo... Via, non m'interrompa, Lisaveta! Glielo dico io che spesso sono stanco morto di rappresentare l'umano senza far parte dell'umano... Ma è uomo, l'artista? Lo si chieda "alla femmina"! Mi pare che noi artisti condividiamo un po' tutti il destino di quei cantori della cappella papale... Cantiamo bene da commuovere. Però...»
«Un pochino almeno dovrebbe vergognarsi, Tonio Kröger. Venga a prendere il tè, ora. L'acqua bolle subito. Ed eccole anche le sigarette. Era rimasto alle voci bianche; prosegua pure. Ma dovrebbe vergognarsi. Se non sapessi con quale trasporto orgoglioso lei è attaccato al suo mestiere...»
«Non dica "mestiere", Lisaveta Ivanovna! La letteratura non è affatto un mestiere, ma una maledizione, perché lei lo sappia. Quando prende a pesare questa maledizione? Presto, tremendamente presto. In un periodo in cui dovrebbe essere ancora facile vivere in pace con Dio e con il mondo. Si comincia a sentirsi segnati, a sentirsi in un dissidio enigmatico verso gli altri, i comuni, i normali, la voragine di ironia, miscredenza, opposizione, sapere, sentimento, che separa se stessi dagli uomini si spalanca sempre più profonda, si è soli, da quell'istante non c'è più comprensione. Che destino! Ammesso che il cuore abbia ancora tanta vita e tanto amore per sentirne l'atrocità. L'autocoscienza si infiamma perché si avverte, tra migliaia di persone, il segno sulla propria fronte e si sente che non sfugge a nessuno. Io conobbi un attore di genio il quale, come uomo, aveva da lottare con una timidezza e una precarietà morbose. In quell'artista perfetto e uomo depauperato, erano causate dall'egotismo sovreccitato e dalla mancanza di parti, di compiti interpretativi... Un artista, uno vero e non uno la cui professione civile sia l'arte, ma uno predestinato e dannato, lei lo può distinguere, con un minimo di perspicacia, in mezzo a una massa di gente. Nel suo viso ci sono senso d'isolamento e di separazione, senso dell'esser conosciuto ed osservato, qualcosa di regale e al tempo stesso d'impacciato. Quanto, con una certa analogia, si può osservare nei lineamenti d'un principe che attraversi, in borghese, una folla. Ma nel nostro caso non c'è borghese che tenga, Lisaveta; ci si può travestire, imbacuccare, camuffare da attaché o da sottotenente della guardia in ferie: senza che neppure si riesca a batter ciglio o a pronunziare una sola parola, tutti sapranno di non aver da fare con un essere umano, ma con un che di estraneo, sorprendente, diverso... Ma che cos'è l'artista? La pigrizia intellettuale e l'indolenza dell'umanità non hanno mai mostrato maggiore ostinazione che di fronte a questa domanda. "Ingegno", dicono umilmente i poveri diavoli che sono sotto l'influsso di un artista, e poiché gli influssi sereni e sublimi, secondo la loro bonaria opinione, devono assolutamente avere origini serene e sublimi, nessuno sospetta che forse, in questo caso, si possa trattare di un "ingegno" di pessima provenienza e discutibilissimo... Si sa che gli artisti sono suscettibili... ora, si sa pure che ciò non usa accadere a persone a posto e con autocoscienza dalle basi solide... Vede, Lisaveta, io nutro, metaforicamente, in fondo all'anima verso il tipo dell'artista quella forte diffidenza che, ogni mio onorevole antenato lassù nell'angusta città, avrebbe mostrato a qualunque saltimbanco e giocoliere errante entratogli in casa. Senta un po' questo fatto. Io conosco un banchiere, un anziano uomo d'affari il quale ha l'ingegno per scrivere novelle. Si applica a questa attitudine nelle ore d'ozio e i suoi lavori, a volte, sono davvero eccellenti. Nonostante, dico "nonostante", questa disposizione sublime, quell'uomo non è affatto irreprensibile; al contrario, ha già scontato, e per validissimi motivi, una grave pena detentiva. In verità fu proprio nel penitenziario che s'avvide di quella tendenza, e le sue esperienze carcerarie formano il motivo dominante di tutti i suoi lavori. Con un certo ardire si potrebbe dedurre che occorra esser pratici d'un tipo qualsiasi di penitenziario per diventar scrittori. Ma non sorge irresistibile il sospetto che le sue vicende carcerarie fossero legate alle radici e alle origini della sua vocazione artistica meno profondamente di quanto lo aveva portato dentro?... Un banchiere che scriva novelle è una rarità, no? Ma un banchiere non criminale, incensurato e solido, il quale scriva novelle... è una cosa che non succede... Lei se la ride, eppure io non scherzo mica poi tanto. Nessun problema, nessuno al mondo, è più tormentoso di quello della coscienza artistica e delle sue conseguenze umane. Prenda l'opera più splendida del più tipico, e perciò più autorevole artista, prenda un'opera delicata e profondamente ambigua come Tristano e Isotta, e osservi l'effetto che quest'opera produce su un giovane di sensibilità sana, forte e normale. Lei vedrà elevatezza, rafforzamento, entusiasmo caldo ed onesto, forse stimolo a creazione "artistica" propria... Il bravo dilettante! In noialtri artisti è tutto fondamentalmente diverso di quanto lui, con "cuore caldo" e "entusiasmo onesto" possa sognare. Ho veduto artisti corteggiati e festeggiati da donne e giovani, mentre io di loro sapevo... Per quanto riguarda l'origine, i fenomeni e le circostanze della vita d'artista, si fanno esperienze sempre più strane...»
«Sugli altri, Tonio Kröger, mi scusi, solo sugli altri?»
Egli tacque, aggrottò i sopraccigli e fischiettò.
«Mi dia la sua tazza, per favore, Tonio, non è forte. E si prenda un'altra sigaretta. Del resto lo sa bene lei di giudicare le cose come non hanno da essere giudicate...»
«Questa è la risposta di Orazio, cara Lisaveta. "Osservare le cose in tal modo, significherebbe osservarle troppo precisamente", non è così?»
«Io le dico che si può osservarle con altrettanta precisione da un altro punto di vista, Tonio Kröger. Sono soltanto una donnetta stupida che dipinge, io, anche se ho qualcosa da replicare, anche se so proteggere un po' da lei la sua professione, non c'è sicuro nulla di nuovo nei miei argomenti, ma solo un'ammonizione a quanto lei stesso sa già bene... Allora: l'affetto purificatore e santificante della letteratura, la distruzione delle passioni per mezzo di conoscenza e di parola, la letteratura come via per comprendere, per perdonare e per amare, la forza redentrice della lingua, lo spirito letterario quale fenomeno più nobile dell'intelligenza umana, il letterato quale uomo completo, quale santo... osservare le cose in tal modo significherebbe osservarle con precisione insufficiente?»
«Lei ha una ragione di parlare cosi, Lisaveta Ivanovna, considerando cioè l'opera dei suoi scrittori, l'adorabile letteratura russa, che rappresenta, tanto giustamente in realtà, la letteratura sacra di cui lei sta parlando. Ma io, le sue obiezioni, non le ho trascurate, bensì esse appartengono a quanto oggi io penso sempre... Mi guardi. Un aspetto eccessivamente allegro, non ce l'ho, vero? Un po' invecchiato, stanco e con il viso affilato, no? Ora, ritornando alla "conoscenza", si porrebbe pensare a un uomo il quale, per natura in buona fede, mansueto, benevolo e un po' sentimentale, fosse annientato e rovinato semplicemente dalla perspicacia psicologica. Non farsi sopraffare dalla mestizia del mondo; osservare, ricordare, connettere, anche la cosa più angosciosa, e per il resto esser di buon umore, già in piena coscienza della superiorità morale sulla ripugnante invenzione dell'essere... sì, certo! A volte, però, nonostante tutti i piaceri dell'espressione, la faccenda le prende la mano. Capire tutto significherebbe perdonare tutto? Non lo credo davvero. C'è qualcosa che io, Lisaveta, chiamo disgusto della conoscenza, lo stato in cui all'uomo basta intuire un fatto per sentirsene subito disgustato da morire (e non disposto all'accomodamento), il caso di Amleto, il danese, quel letterato tipico. Lui sapeva che cosa significhi; venir chiamato a conoscere senza essere nato per farlo. Presentire, per di più attraverso il velo di lacrime del sentimento, riconoscere, ricordare, osservare e dover mettere in disparte, sorridendo, le cose osservate, nell'istante in cui le mani s'avvinghiano, le labbra s'incontrano, in cui lo sguardo umano, accecato dalla sensività, si spegne... è infame, Lisaveta, è perfido, fa indignare... ma a che serve indignarsene? Un lato diverso, ma non meno attraente, della faccenda è poi, si capisce, l'apatia, l'indifferenza e la stanchezza ironica verso ogni verità, come per altro è un fatto che nessun posto al mondo è dominato da più mutismo e più disperazione d'una cerchia di persone geniali in sostanza già furbissime. Ogni conoscenza è vecchia e noiosa. Provi ad esprimere una verità, alla conquista e al possesso della quale lei forse ha una certa gioia giovanile, e sentirà rispondere alla sua spregiudicatezza con una brevissima emissione d'aria dal naso... Proprio così, la letteratura stanca, Lisaveta! Nella società umana, le assicuro, a uno può accadere d'essere ritenuto stupido, a forza di scetticismo e circospezione, mentre si è solo orgogliosi e scoraggiati... Questo sulla "conoscenza". Per quanto invece riguarda la "parola", non si tratta forse in questo caso non tanto di redimere, quanto invece di liquidare e mettere-in-ghiaccio la sensività? Sul serio, c'è una ragione glaciale e rivoltantemente usurpata in questa liquidazione spedita e superficiale del sentimento per mezzo della lingua letteraria. Ha il cuore traboccante, si sente troppo toccata da una vicenda dolce o sublime: niente di più facile! Vada dal letterato, e tutto in brevissimo tempo verrà sistemato. Analizzando e redigendo la sua faccenda, chiamandola per nome, dandole espressione e portandola a parlare, le liquiderà il tutto per sempre, glielo renderà indifferente, senza pretendere alcuna ricompensa. Ma lei se ne andrà a casa alleggerita, rinfrescata e purificata, meravigliandosi che cosa mai nella faccenda poco prima potesse sconvolgerla con tanta dolce confusione. E lei vuole sul serio farsi garante per quel ciarlatano freddo e presuntuoso? Quel che è esternato, dice il suo credo, è liquidato. E se si fosse esternato tutto il mondo, anche quello sarebbe liquidato, redento, finito... Benissimo! Però non sono un nichilista, io...»
«Lei non è...» disse Lisaveta. Stava tenendo il cucchiaino con il tè vicino alla bocca, e s'irrigidì in quella posizione.
«Via... via... si riprenda, Lisaveta! Non lo sono, le dico, in quanto a sentimento vivo. Vede, il letterato, in fondo, non capisce che la vita ha voglia di continuare a vivere, che non se ne vergogna, pur essendo stata sfogata e "liquidata". Ma, guarda un po', nonostante la redenzione per mezzo della letteratura, continua imperterrita a peccare; perché ogni traffico è peccato agli occhi dello spirito...
«Sono alla meta, Lisaveta. Mi ascolti. Io amo la vita, questa è una confessione. La accetti e la conservi, non l'ho ancora fatta a nessuno. Si è detto, si è persino scritto e fatto anche pubblicare, che io odio o temo oppure disprezzo o anche detesto la vita. Mi è piaciuto sentirlo, mi ha lusingato; ma per altro non è meno sbagliato. Io l'amo, la vita... Lei sorride, Lisaveta, e io so di che. Ma la scongiuro di non considerare letteratura quanto vado dicendo; non pensi a Cesare Borgia o a una qualche filosofia ebbra che lo esalti; non fa per me quel Cesare Borgia, non gli do neppure la minima importanza, e non capirà mai e poi mai come si possano venerare quali ideali lo straordinario e il demoniaco. No, la "vita" quale eterno contrasto, così come sta di fronte allo spirito e all'arte, non si presenta ai non comuni come una visione di grandezza sanguinosa e di bellezza furente, non come il non comune, ma come il normale, l'ammodo, l'attraente, e l'impero della nostra malinconia è la vita nella sua trivialità seduttrice! Gli manca ancora molto per essere artista, mia cara, a colui per il quale l'ultima e più profonda esaltazione sia lo smaliziato, l'eccentrico e il satanico, a colui che non conosca la malinconia per l'ingenuo, il semplice e il vivente, per un po' d'amicizia, di dedizione, di confidenza e di felicità umana... la malinconia furtiva e struggente, Lisaveta, per le delizie della mediocrità...
«Un amico tra gli uomini! Vuole credere lei che sarei orgoglioso e felice di possedere un amico tra gli uomini? Ma fino ad ora ho avuto amici solo tra demoni, farfarelli, mostri oscuri e fantasmi afasiaci, vale a dire: tra letterati. «A volte mi capita d'andare a finire su un podio, di trovarmi in una sala di fronte a degli uomini venuti per ascoltarmi. Vede, poi mi accade d'osservarmi a guardare attorno nel pubblico, di sorprendermi a scrutare segretamente nell'auditorio, con il dubbio in cuore chi possa essere colui che mi viene incontro, di cui mi giunge l'applauso e il ringraziamento, con cui la mia arte mi procura un'alleanza ideale... Non trovo quanto cerco, Lisaveta. La massa e comunità, trovo, a me ben nota, pressappoco una riunione dei primi cristiani: gente dai corpi goffi e dall'anima fine, gente che, per così dire, cade sempre, lei mi capisce, e la cui poesia è una blanda vendetta contro la vita... sempre e soltanto sofferenti e malinconici e poveretti, e mai qualcuno degli altri, di quelli dagli occhi azzurri, Lisaveta, che non hanno bisogno dello spirito!...
«E infine non sarebbe una deplorevole mancanza di coerenza, rallegrarsi che fosse altrimenti? È assurdo amare la vita e tuttavia sforzarsi con tutti gli artifici di tirarla dalla propria parte, interessarla alla finezza e alle malinconie, a tutta la nobiltà malata della letteratura. Il regno dell'arte s'ingrandisce, e quello della salute e dell'innocenza si restringe a
questo mondo. E quanto ancora ne rimane si dovrebbe conservarlo nel modo più accurato, e non si dovrebbe voler sedurre alla poesia gente che preferisce piuttosto leggere libri di cavalli con istantanee!
«Perché, in fondo, quale spettacolo sarebbe più misero di quello della vita a cimento con l'arte? Noi artisti non disprezziamo nessuno più profondamente del dilettante, del vivente che crede di poter essere artista, per giunta così, all'occorrenza. L'assicuro, questo tipo di disprezzo appartiene alle mie vicende personali. Mi trovo a un ricevimento in una buona famiglia, si mangia, a beve e si chiacchiera comprendendosi ottimamente, e mi sento felice e grato di poter sparire per un po' tra gente ingenua e normale come un lor pari. D'un tratto (questo m'è accaduto) s'alza in piedi un ufficiale, un sottotenente, un bell'uomo gagliardo che io non avrei mai creduto capace d'un comportamento indegno dell'uniforme che portava, e chiede, con parole inequivocabili, il permesso di leggerci alcuni versi da lui composti. Con
sorrisi sbalorditi il permesso gli vien dato ed egli mette in atto il proposito leggendo il lavoro da un foglietto fino ad allora tenuto nascosto nella tasca della giubba, qualcosa alla musica e all'amore, in poche parole, tanto profondamente sentita quanto inefficace. Ora, io mi chiedo: un sottotenente! Un uomo di mondo! Davvero non ne aveva bisogno...! Poi segue quanto deve seguire: facce lunghe, silenzio, un po' di applausi artificiosi, disagio profondissimo tutt'attorno. Il primo fatto psichico di cui mi rendo conto è che mi sento complice del turbamento causato alla riunione da quel giovane sconsiderato, e, senza dubbio, gli sguardi beffardi e gelidi sono anche per me, il cui mestiere lui ha abborracciato. Ma il secondo è che quest'uomo, per il cui carattere e per la cui esistenza, poco prima, sentivo ancora il più onesto rispetto, ai miei occhi improvvisamente scende, scende, scende... Mi prende una benevolenza compassionevole. Insieme con altri signori di cuore e bonari, avanzo verso di lui e gli rivolgo la parola. "I miei complimenti," dico, "signor tenente! Un bell'ingegno! È stato davvero incantevole!" E poco ci manca che gli batta la mano sulla spalla. Ma è benevolenza, il sentimento da mostrarsi a un sottotenente?... Colpa sua! Eccolo ora imbarazzatissimo a espiare l'errore che si possa cogliere una fogliolina, un'unica fogliolina dal lauro dell'arte, senza in compenso dover pagare con la propria vita. No, in tal caso tengo per il mio collega, il banchiere criminale... Ma lei, Lisaveta, non trova che oggi io sia d'una loquacità amletica?»
«Ha finito ora, Tonio Kröger?»
«No. Ma non dico più niente.»
«E basta anche... Si aspetta una risposta?»
«Ce l'ha?»
«Penserei di sì... Io l'ho ascoltata bene, Tonio, dal principio alla fine, e voglio darle la risposta che s'adatti a tutto quanto lei oggi nel pomeriggio ha detto, e che sia la soluzione del problema causa del suo turbamento. Allora! La soluzione è che lei, così come se ne sta seduto qui, è in tutto e per tutto un borghese.»
«Che sono?» domandò lui accasciandosi un po'.
«Un colpo duro, no, e deve anche esserlo. Perciò voglio mitigare un pochino la sentenza, dato che posso farlo. Lei è un borghese su strade sbagliate, Tonio Kröger... un borghese smarrito.»
Silenzio. Poi, alzatosi, afferrò cappello e bastone.
«La ringrazio, Lisaveta Ivanovna; ora posso andarmene a casa alleggerito. Sono liquidato

IX
Mentre si trovava al Nord, Tonio Kröger scrisse alla sua amica Lisaweta Iwanowna come le aveva promesso.
Cara Lisaweta, laggiù nell’Arcadia in cui fra non molto farò ritorno. Eccole dunque qualcosa che assomiglia ad una lettera, un qualcosa che forse la deluderà perché penso per ora di tenermi un po’ sulle generali. Non che io non abbia alcunché da raccontarle, non che, a modo mio, non abbia vissuto questa o quella avventura. A casa, nella mia città natale mi si voleva persino arrestare... ma di questo le riferirò a voce al ritorno. Adesso mi accade di trovarmi talvolta in giorni in cui preferisco, con buone parole, dire qualcosa di generale piuttosto che raccontare fatti.
Si rammenta ancora Lisaweta di avermi una volta definito un borghese, un borghese smarrito? Lei mi chiamò così in un momento in cui io, trasportato da certe confessioni che mi ero lasciato sfuggire, le stavo professando tutto il mio amore per quello che chiamo vita, e mi chiedo adesso quanto lei sapesse sino in fondo di cogliere nel vero, se avesse veramente davvero intuito come il mio spirito borghese ed il mio amore per la vita siano la medesima cosa. Questo viaggio mi ha fornito l’occasione di rifletterci su...
Mio padre, lei lo sa, era un tipico temperamento nordico: contemplativo, rigoroso nel suo puritanesimo e con una spiccata inclinazione verso la malinconia; mia madre, dall’indefinito sangue esotico, era bella, sensuale, spontanea, indolente e passionale al tempo stesso, votata ad una naturale negligenza. Senza alcun dubbio era questa una miscela che teneva racchiuse straordinarie possibilità e straordinari rischi. Cosa ne è uscito fuori eccolo qui: un borghese che si è smarrito per i sentieri dell’arte, un bohemien con la nostalgia della buona educazione, un artista dalla coscienza sporca. Perché è proprio la mia coscienza di borghese quella che mi lascia scorgere nella vocazione artistica, nello straordinario e nel genio qualcosa di profondamente ambiguo, malfamato e dubbioso, che mi porta ad amare con singolare dolcezza le cose semplici e sincere, per quelle normali, non geniali, decorose.
Io sto fra due mondi e non mi sento d’appartenere pienamente a nessuno dei due, ed è per questo che mi muovo un poco con difficoltà. Voi artisti mi definite un “borghese”, ed i borghesi sono tentati di arrestarmi... Quale delle due cose mi ferisca di più io davvero non saprei dire. I borghesi sono stupidi; ma voi artisti adoratori della bellezza, voi che mi tacciate di essere flemmatico e privo di ambizioni, dovreste almeno riflettere al fatto che si può ammettere una vocazione artistica così intensa e sentita, per vocazione e destino, che nessuna ambizione le può sembrare più dolce e delicata come quella che si cela dietro le delizie di una sana mediocrità.
Li ammiro io i tipi fieri e calcolatori, quelli che si avventurano sul sentiero della grande e demoniaca bellezza e disprezzano l’uomo, li ammiro sì, ma non li invidio. Perché se in qualche maniera può esistere un qualcosa in grado di trasformare un letterato in un poeta, questo è il suo amore borghese verso le cose umane, viventi e mediocri. Ogni calore, ogni bontà, ogni brio origina di qui, e mi sembra proprio si tratti di quello stesso amore di cui sta scritto che può esprimersi con lingua umana ed angelica, senza peraltro essere soltanto un bronzo tonante o un campanellino squillante.
Ciò che finora ho fatto è nulla, non molto, e le cose buone sono veramente poche. È mia intenzione fare qualcosa di meglio, Lisaweta, e questa è una promessa. Mentre le scrivo il sordo brontolio del mare giunge sino a me. Io socchiudo gli occhi e scruto in un mondo informato e schematico che vuole essere ordinato e plasmato, e scorgo un brulichio d’ombre d’umane fattezze che mi fan cenno d’ammaliarle e redimerle: alcune tragiche, altre ridicole, e alcune sono l’una e l’altra cosa allo stesso tempo, ed a queste sono molto affezionato. Ma il mio amore più profondo e nascosto se ne va comunque per gli esseri biondi dagli occhi azzurri, per coloro che trascorrono l vita serenamente, per i fortunati, per gli amabili, i mediocri.
Non trascuri quest’amore Lisaweta, è buono e fecondo: è un misto di struggimento, di invidia, di malinconia, di un pochino di disprezzo, e d’una immensa e casta beatitudine.

[Mi dispiace di non aver potuto indicare i traduttori, ma sinceramente non li so neanch'io ;-D]
Aware 1-8-2008

UN VERO UOMO DOVREBBE LAVARE I PIATTI - CAPAREZZA

(dall'album "Le dimensioni del mio caos", 2008)

Non sei un uomo se come un frate chiedi perdono.
Non sei un uomo se a fare mazzate non sei buono.
Non sei un uomo se tua moglie di te se ne fotte.
Non sei uomo se.. se non la gonfi di botte.
Non sei un uomo se non guidi le macchine grosse.
Non sei un uomo se non tiri due ganci alle giostre.
Non sei un uomo se hai paura di tornare in carcere.
Non sei un uomo sei gay se ti metti a piangere.
Non sei un uomo e farai una brutta fine.
Non sei un uomo e farai una brutta fine.

Non sei un uomo… se non hai la pancia sferica.
Non sei un uomo senz’abito buono alla domenica.
Non sei un uomo se di notte non vai al bordello.
Non sei un uomo… se non ti tira il pisello.
Non sei un uomo se ti arrendi e non mostri gli artigli.
Non sei un uomo se non prendi a ceffoni i tuoi figli.
Non sei un uomo se il rispetto che hai non ti basta.
Lo sai cosa ti manca? Un ferro nella tasca.
Non sei un uomo e farai una brutta fine.
Non sei un uomo e farai una brutta fine.

Non ascoltare questi maldicenti.
Non si va avanti con la forza, ma con la forza degli argomenti.
Non ascoltare questi mentecatti.
Un vero uomo si dovrebbe alzare per lavare i piatti.
Un vero uomo dovrebbe lavare i piatti.

Non sei un uomo se non hai lo stereo più potente.
E poi si vede dalla foto che hai sulla patente.
Non sei un uomo se perdi tempo a studiare i libri.
Se sei un uomo.. meglio che inizi con gli scippi.
Non sei un uomo se ti beccano la piantagione.
Non sei un uomo se dalla prigione fai il mio nome.
Non sei un uomo se mi fotti, che se me ne accorgo.
Non sei un uomo vivo, tu sei un uomo morto.
Non sei un uomo e farai una brutta fine.
Non sei un uomo e farai una brutta fine.

Non ascoltare questi maldicenti.
Non si va avanti con la forza, ma con la forza degli argomenti.
Non ascoltare questi mentecatti.
Un vero uomo si dovrebbe alzare per lavare i piatti.
Un vero uomo dovrebbe lavare i piatti.

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"«Ehi, raccontaci quella storia», disse all'improvviso Chris, mettendosi a sedere.

«Che storia?» chiesi io, anche se immaginavo di saperlo.

Mi sentivo sempre imbarazzato quando il discorso cadeva sulle mie storie, nonostante tutti sembrassero apprezzarle — aver voglia di raccontare storie, o addirittura di scriverle... era quasi tanto bizzarro da essere fin troppo regolare, come deside­rare crescere e fare l'ispettore delle fogne o il meccanico del Grand Prix. Richie Jenner, un ragazzo che se la faceva con noi finché nel 1959, la famiglia non si trasferì nel Nebraska, fu il primo a scoprire che da grande volevo fare lo scrittore, che vo­levo farlo come lavoro a tempo pieno. Eravamo su nella mia stanza, a perdere tempo, e lui trovò un mazzo di fogli scritti, sotto i fumetti in una cartella nell'armadio. Cosa è questo? chie­de Richie. Niente, dico io, e cerco di tirarglieli via. Richie tiene le pagine lontane dalla mia presa... e devo ammettere di non aver fatto uno sforzo eccessivo per riprenderle. Volevo che le leggesse e al tempo stesso non volevo — un misto scomodo di orgoglio e di timidezza che non è mai cambiato troppo dentro di me quando qualcuno chiede di vedere. L'atto di scrivere in sé è fatto in segreto, come la masturbazione — oh, ho un amico che ha fatto cose come scrivere storie nelle vetrine delle librerie e dei grandi magazzini, ma quello è un uomo che ha un coraggio quasi folle, il tipo di uomo che vorreste avere con voi se vi capi­ta un infarto in una città dove non vi conosce nessuno. Per me è sempre un voler essere sesso e non arrivarci — sempre il lavoro di mano da adolescente nel bagno con la porta chiusa.

Richie stette quasi tutto quel pomeriggio seduto sul mio letto a leggere la roba che avevo fatto, per lo più influenzata dallo stesso genere di fumetti che dava gli incubi a Vern. E quando ebbe finito, Richie cominciò a guardarmi in uno strano modo nuovo, che mi faceva sentire molto particolare, come se si ve­desse costretto a riconsiderare tutta quanta la mia personalità. Disse: Sei bravo. Perché non glieli fai vedere a Chris? Io dissi no, doveva essere un segreto, e Richie disse: Perché? Non è mica cosa da femminucce. Non sei mica un finocchio. Voglio dire, mica sono poesie."

(Stephen King, da "Il corpo (Stand by me)", contenuto nella raccolta "Stagioni diverse", 1982)

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"Scrivi poesie, sei un gay"

Catania, detenuto stuprato in carcere

"Scrivere poesie è da omosessuali". Con questa motivazione otto mafiosi reclusi nel carcere di Catania avrebbero violentato un detenuto 20enne affiliato a un'altra cosca. I fatti risalgono a due anni fa, ma sono stati resi noti soltanto ora dal legale della vittima, l'avvocato Antonio Fiumefreddo. "Il ragazzo fu costretto al ricovero in infermeria con una profonda lacerazione alle parti intime e nessuno fu punito", ha spiegato il penalista.
"Il giovane scriveva poesie e aveva modi che potremmo definire effeminati - ha aggiunto il legale -. Non so nemmeno se fosse omosessuale, ma così venne ritenuto dagli altri detenuti e fu trattato in carcere come tale". Per due anni della violenza nessuno ha mai parlato, ma poi il 20enne si è confidato con il suo avvocato, che si è rivolto alle autorità competenti.

"Il ragazzo ora è ancora in carcere, ma epr quell'episodio non ci fu alcuna conseguenza o punizione per i suoi aggressori - spiega ancora Fiumefreddo, che è anche sovrintendente del teatro Bellini di Catania ed è stato candidato dal Movimento per l'autonomia alle ultime politiche -. Tutto attiene all'ipocrisia del sistema". E il caso del suo assisistito non sarebbe stata un'eccezione. "L'episodio non è l'unico, credo che sia accaduto anche molte altre volte", ha aggiunto il penalista. Della vicenda si sta occupando anche l'Arcigay, che ha chiesto immediati chiarimenti alle atuorità competenti.

(da www.tgcom.it)
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Che detesto i cliché dell'"uomo che non deve chiedere mai", dato che, se non chiedi, non sai... (Caparezza)

Aware 7-8-2008

“Ma lei è l’insegnante di Difesa contro le Arti Oscure!” esclamò Harry “Non può andarsene ora! Non con tutti questi fatti di magia nera che stanno accadendo!”

“Be’, devo ammettere... Quando ho accettato l’incarico...” balbettò Allock che adesso stava buttando le calze sopra agli abiti, “nel mansionario non c’era proprio niente che... non mi aspettavo di...”

“Intende dire che ha intenzione di squagliarsela?” chiese Harry incredulo. “Dopo tutto quel che ha raccontato di aver fatto nei suoi libri?”

“I libri possono portare fuori strada” disse Allock con tono diplomatico.

“Ma li ha scritti lei!” esclamò Harry.

“Mio caro ragazzo” disse Allock raddrizzandosi e fissandolo con la fronte aggrottata. “Un po’ di buon senso. I miei libri non avrebbero venduto neanche la metà se la gente non avesse pensato che a fare tutte quelle cose ero stato io. A nessuno piace leggere le imprese di un mago armeno brutto e vecchio,  anche se ha salvato un intero paese dai lupi mannari. La sua immagine in copertina avrebbe veramente sfigurato! Non aveva nessun gusto nel vestirsi. Quanto poi alla maga che ha messo in fuga l’anima in pena della strega Bandon, aveva il labbro leporino. Insomma, cerca di capire...”

“E così lei si è preso il merito di quel che altri hanno fatto?” chiese Harry sempre più incredulo.

“Harry, Harry” disse Allock scuotendo la testa con impazienza. “Non è così semplice. Non ho mica lavorato poco, sai? Ho dovuto andare a scovare queste persone. Chiedergli come erano riuscite a compiere le loro imprese. Poi ho dovuto fargli un Incantesimo di Memoria perché non ricordassero più quel che avevano fatto.  Se c’è una cosa di cui vado fiero è proprio il mio Incantesimo di Memoria. No, davvero, il lavoro da fare è stato tanto, Harry. Non basta firmare autografi sui libri e distribuire foto pubblicitarie, sai? Se vuoi la fama devi essere pronto a faticare, con costanza.”

(Joanne Kathleen Bowling, “Harry Potter e la Camera dei Segreti”, capitolo 16, “La Camera dei Segreti”, pagg. 267-268, traduzione di Marina Astrologo, casa editrice Salani, 1999)

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12.44 - Cerimonia di apertura, la bimba era in playback

A quattro giorni dalla cerimonia d'apertura delle Olimpiadi, emerge che la bambina che milioni di telespettatori in tutto il mondo hanno visto cantare al Nido d'uccello di Pechino si è esibita in playback al posto della reale interprete della canzone per una questione di "immagine internazionale". La vera interprete della "Canzone per la patria", che è risuonata durante la cerimonia, si chiama infatti Yang Peiyi ed ha appena sette anni ma il direttore musicale della manifestazione, Chen Qugang ha raccontato che e' stata scelta un'altra bambina, Lin Miaoke di nove anni, che aveva maggior dimestichezza con il palcoscenico.

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Per la cronaca: la vera cantante aveva i denti storti.

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Chiedo scusa per il mio abuso nell'usufruire di questo blog... ;-D
Aware 13-8-2008

EVELINE

Stava seduta alla finestra osservando la sera che scendeva sul viale, con la testa appoggiata alle tendine e nelle narici l'odore del "crètonne" polveroso; si sentiva stanca.
C'era poca gente per la strada. L'uomo che abitava nell'ultima casa passò rincasando; ne sentì i passi che risuonavano sul cemento del marciapiede e poi scricchiolavano più in là sul sentiero, davanti alle nuove case rosse. Una volta in quel punto c'era un terreno, sul quale loro andavano a giocare con i bambini del quartiere. Poi arrivò un tale da Belfast, che comprò il terreno e ci costrui delle case; non come le loro case piccole e scure: luminose case di mattoni con i tetti scintillanti. I ragazzi del viale erano soliti giocare insieme su quel terreno: i Devine, i Water, i Dunn, Keogh lo zoppetto, lei e i suoi fratelli e sorelle. Ernest però non giocava mai: era troppo grande. Spesso suo padre li scacciava di lì col bastone di pruno; ma in genere il piccolo Keogh restava a fare il palo, dando l'allarme non appena lo vedeva arrivare. Tuttavia, ripensandoci, le sembrava che, a quei tempi, erano stati abbastanza felici; il padre non era ancora così cattivo, e poi la mamma era viva. Ma tutto questo apparteneva ad un tempo molto lontano; lei, i suoi fratelli e le sue sorelle erano cresciuti, e la mamma era morta. Tizzie Dunn era morto pure lui, e i Water erano ritornati in Inghilterra. Tutto cambia; e lei ora stava per andarsene come gli altri, stava per lasciare la casa.
La casa! Si guardò intorno per la stanza, passando in rivista tutti quegli oggetti familiari che per tanti anni aveva spolverato una volta la settimana, chiedendosi da dove mai venisse tutta quella polvere.
Forse non le avrebbe più riviste quelle cose, dalle quali non avrebbe mai immaginato di doversi separare. In tutti quegli anni non aveva ancora scoperto il nome del prete la cui fotografia ingiallita era appesa alla parete sopra l'armonium scordato, vicino alla stampa a colori che raffigurava le promesse fatte a santa Maria Margherita Alacoque. Era stato compagno di scuola di suo padre che, ogni volta che ne mostrava la fotografia a un visitatore, era solito accennarvi con una parola buttata là:
"E' a Melbourne adesso".
Lei aveva acconsentito ad andarsene, a lasciare la sua casa. Era saggio quello che faceva? Cercava di esaminare la questione da ogni lato. Dopotutto a casa sua aveva un tetto e di che nutrirsi; era circondata da quelli con i quali aveva vissuto fin dalla nascita.
Certo doveva lavorare sodo, sia a casa che in negozio. Che cosa avrebbero detto di lei ai Magazzini una volta scoperto che se ne era scappata via con uno sconosciuto? Probabilmente che era impazzita e al suo posto avrebbero assunto qualcun altro tramite un'inserzione. La signorina Gavan ne sarebbe stata contenta; era sempre stata aspra verso di lei, soprattutto in presenza di gente.
"Signorina Hill, non vedete che le signore aspettano?"
"Per favore, signorina Hill, un po' di vivacità!"
Non avrebbe versato molte lacrime nel lasciare i Magazzini. Nella sua nuova casa, in un posto lontano e sconosciuto, non sarebbe stato così. Allora sarebbe stata sposata, lei, Eveline, e la gente l'avrebbe trattata con rispetto. Non si sarebbe lasciata sopraffare come sua madre. Perfino ora, anche se aveva diciannove anni compiuti, qualche volta si sentiva in balìa della violenza di suo padre. Per questo le erano venute le palpitazioni, lo sapeva. Negli anni della loro infanzia suo padre non le aveva mai messo le mani addosso, come faceva con Harry ed Ernest, perchè lei era una ragazza; ma più tardi aveva cominciato a minacciarla, dicendole che poteva ringraziare la memoria di sua madre, se lui si tratteneva. E ora non c'era più nessuno a proteggerla. Ernest era morto e Harry, che si occupava di decorazioni di chiese, era quasi sempre lontano da casa. Per di più la vivace discussione per i soldi, che si ripeteva immutabilmente ogni sabato sera, aveva incominciato a indebolirla oltre ogni dire. Lei dava sempre tutto il suo salario, sette scellini, e Harry contribuiva per quanto poteva, ma il difficile consisteva nel tirar fuori denaro al padre. Lui sosteneva che lei scialacquava il denaro, che non le avrebbe dato quello che guadagnava col sudore della fronte perchè lo buttasse dalla finestra, le diceva anche di peggio perchè il sabato sera in genere era particolarmente intrattabile. Finiva però col darglielo e le chiedeva se aveva o no intenzione di comprare qualcosa per il pranzo della domenica. E lei doveva precipitarsi fuori in fretta e furia per la spesa, tenendo ben stretta in mano la borsa di cuoio nero, mentre si faceva strada a gomitate tra la folla e rientrava sul tardi carica di provviste. Era un duro lavoro per lei quello di badare alla casa e di stare attenta che i due fratellini che erano stati affidati alle sue cure andassero a scuola regolarmente e avessero di che mangiare. Era un duro lavoro, una vita dura, ma ora che stava per lasciarla non le pareva poi del tutto insopportabile.
Stava per sperimentare una nuova vita con Frank. Frank era molto gentile, risoluto, di animo aperto. Stava per scappare con lui col vapore della sera per diventare sua moglie e vivere con lui a Buenos Aires, dove una casa tutta per lei l'aspettava. Con quanta chiarezza ricordava la prima volta che lo aveva visto! Lui abitava nella via principale, in una casa che lei era solita frequentare. Sembrava che fossero passate poche settimane da allora. Lui era vicino al cancello, il berretto a visiera cacciato indietro sulla testa e i capelli scomposti che scendevano in avanti sul viso abbronzato. La aspettava ogni sera davanti ai Magazzini e l'accompagnava a casa. L'aveva portata a vedere "La ragazza di Boemia", e lei si era sentita fiera di essere seduta vicino a lui a teatro, in posti che non le erano abituali. Lui amava molto la musica e cantava anche un po'. Tutti li sapevano innamorati, e ogni volta che lui cantava la canzone della ragazza che ama un marinaio, lei sentiva un piacevole imbarazzo.
Frank, per gioco, la chiamava Papavero. All'inizio l'avere un corteggiatore le aveva dato un senso di eccitazione, poi aveva cominciato a volergli bene sul serio. Parlava di paesi lontani; aveva cominciato come mozzo per una sterlina al mese su una nave della Allan Lines che faceva servizio con il Canadà. Le elencò i nomi di tutte le navi sulle quali era stato imbarcato e i diversi compiti ai quali era stato adibito. Aveva passato lo stretto di Magellano e le raccontò delle leggende sui terribili Patagoni. Aveva trovato la sua fortuna a Buenos Aires ed era tornato alla vecchia terra natìa solo per una vacanza. Naturalmente il padre aveva scoperto tutto e le aveva proibito di avere a che fare con lui.
"Li conosco, questi marinai!"
Un giorno era arrivato al punto di litigare con Frank, e da allora lei aveva dovuto incontrare il suo innamorato di nascosto. Si era fatto più buio sul viale, e il bianco delle due lettere che teneva in grembo diventava sempre più indistinto; una era per Harry, l'altra per suo padre. Ernest era stato il suo beniamino, ma voleva bene anche a Harry. Negli ultimi tempi suo padre aveva cominciato a invecchiare, lei se ne rendeva conto; avrebbe sentito la sua mancanza.
Anche lui qualche volta riusciva a essere gentile. Non molto tempo prima, un giorno che era indisposta, le aveva letto una storia di spettri e aveva abbrustolito del pane per lei. Un'altra volta, quando c'era ancora la mamma, erano andati tutti insieme alla collina di Howth per un picnic, e ricordava che suo padre si era messo in testa il cappellino della mamma per far ridere loro ragazzi.
Il tempo passava velocemente, ma lei restava lì seduta accanto alla finestra con la testa appoggiata alle tendine, respirando l'odore del "crètonne" polveroso. Le arrivava all'orecchio il suono di un organetto ambulante che suonava lontano sul viale. Conosceva quel motivo. Strano che fosse capitato proprio quella sera a ricordarle la
promessa fatta alla mamma di tenere la casa unita il più a lungo possibile. Ricordava l'ultima notte della malattia della mamma; si rivide ancora nella stanza buia e chiusa dall'altra parte dell'anticamera, mentre da fuori le arrivava il suono di una melanconica aria italiana. Al suonatore dell'organetto erano stati dati sei pence ed era stato ordinato di allontanarsi. Risentiva suo padre, che rientrando nella camera dell'ammalata, imprecava:
"Maledetti italiani! Arrivano fin qui!".
Mentre rifletteva, la pietosa visione della vita di sua madre, di quella vita di continui piccoli sacrifici quotidiani, spentasi in un ultimo vaneggiare, raggiunse l'intimo del suo essere. Tremava, e le sembrava ancora di riascoltare la voce della mamma ripetere continuamente e con insistenza maniaca:
"Derevaum Seraun! Derevaum Seraun!"
Balzò in piedi presa da un improvviso impulso di terrore. Fuggire! Doveva fuggire. Frank l'avrebbe salvata, le avrebbe dato la vita, forse anche l'amore. Soprattutto voleva vivere. Perchè avrebbe dovuto essere infelice? Aveva pur diritto alla felicità, e Frank l'avrebbe presa, stretta tra le braccia, l'avrebbe salvata.
Era in piedi tra la folla ondeggiante alla stazione di North Wall. Lui le teneva la mano, e lei sapeva che le stava parlando, ripetendole di continuo qualcosa sulla prossima traversata. La stazione brulicava di soldati coi loro scuri bagagli. Improvvisamente, attraverso le porte aperte delle tettoie, le apparve a tratti la massa immobile e nera della nave accostata alla banchina, con gli oblò illuminati. Non rispose; si sentiva le guance pallide e fredde e, in un'angosciosa incertezza, pregava Dio che la guidasse, che le indicasse qual era il suo dovere. La nave lanciò un lungo, lugubre sibilo nella nebbia. Se se ne fosse andata, domani si sarebbe trovata in mare aperto con Frank, diretta a Buenos Aires. I loro posti erano già stati prenotati.
Poteva ancora tirarsi indietro dopo tutto quello che lui aveva fatto per lei? L'angoscia le dava un senso di nausea, e le sue labbra si muovevano in una silenziosa e fervida preghiera.
Il suo cuore fu colpito dal suono di un campanello. Sentì che lui le prendeva la mano.
"Vieni!"
Tutte le acque del mondo le precipitarono sul cuore. Lui la tirava verso quei marosi; l'avrebbe annegata. Si aggrappò con tutte e due le mani al parapetto di ferro.
"Vieni!"
No! no! no! Era impossibile. Le sue mani stringevano spasmodicamente il parapetto. Tra le onde lanciò un grido di angoscia.
"Eveline! Evvy!"
Lui fu sospinto al di là dei cancelli e le gridò di seguirlo. Gli urlarono di andare avanti, ma Frank continuava a chiamarla. Lei rivolse verso di lui il suo volto impallidito, passivo, come quello di un animale smarrito. I suoi occhi non diedero un segno, nè di amore nè di addio; non sembravano nemmeno riconoscerlo.

(James Joyce, Gente di Dublino)

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Non so perché, ma questo, a mio parere, è un trittico ideale:

- Libro: "Gente di Dublino" di James Joyce
- Film: "Dillinger è morto" di Marco Ferreri
- Album: "L'apparenza" di Lucio Battisti
Aware 17-8-2008

IL CUORE RIVELATORE



Di Edgar Allan Poe



1843 


Traduzione di Renato Ferrari



(da “Racconti”, De Agostini editore, 1985)



Art is long, and Time is fleeting,

And our hearts, though stout and brave,
Still, like muffled drums, are beating
Funeral marches to the grave.



L’arte è lunga e il tempo passa,

e i nostri cuori, benché forti e coraggiosi,

ancora, come tamburi dal suono smorzato, battono

marce funerarie fino alla tomba.



(“A psalm of life”, Henry Wadsworth Longfellow)



È vero! Ero sempre stato nervoso, molto, molto, spaventosamente nervoso, e lo sono ancora; ma perché volete dire ch’io sono pazzo? La malattia aveva soltanto acuito i miei sensi, non distrutti, non ottenebrati. Più acuto di tutti era il senso dell’udito. Udivo tutte le cose in cielo e in terra. Udivo molte cose nell’inferno. E allora, sono matto per questo? Ascoltate! E osservate con quanta lucidità, con quanta calma io posso narrarvi l’intera storia.

È impossibile dire come l’idea mi sia entrata per la prima volta nel cervello; ma, una volta concepita, non mi diede più tregua né giorno né notte. Non avevo alcuno scopo. Non v’era collera in me. Volevo bene al vecchio. Non mi aveva mai fatto alcun torto. Non mi aveva mai ingiuriato. Non desideravo il suo oro. Penso che fosse per il suo occhio! Sì, era questo! Aveva l’occhio d’un avvoltoio, un occhio azzurro pallido, coperto da un velo. Ogni volta che esso si posava su di me, il sangue mi si raggelava; e così, per gradi, molto lentamente, mi misi in testa di togliere la vita al vecchio, e sbarazzarmi così, per sempre, di quell’occhio.

Ora questo è il punto. Voi mi reputate pazzo. I pazzi non sanno nulla. Ma avreste dovuto vedere me. Avreste dovuto vedere con quanta saggezza procedetti, con quanta cautela, con quanta preveggenza, con quanta dissimulazione mi misi all’opera! Non ero mai stato più gentile col vecchio di quanto lo fui in tutta la settimana che precedette l’uccisione. E ogni notte, verso la mezzanotte, io giravo la serratura della sua porta e l’aprivo... oh, così dolcemente! E poi, quando avevo aperto quanto sarebbe passato per far passare la testa, mettevo dentro una lanterna cieca, tutta chiusa, chiusa, così da non lasciar filtrare la luce, e quindi introducevo la testa. Oh, avreste riso al vedere con quanta astuzia la introducevo! La muovevo lentamente, molto, molto lentamente, per non disturbare il sonno del vecchio. Mi occorreva un’ora per insinuare tutt’intero il mio capo nell’apertura fino a che io potessi vederlo disteso sul letto. Ah! Un pazzo sarebbe stato altrettanto accorto? E poi, quando il mio capo era ben dentro nella stanza, io scoprivo la lanterna cautamente, oh, così cautamente, cautamente (perché la cerniera scricchiolava), la scoprivo di quel tanto da far cadere un unico sottile raggio di luce sull’occhio d’avvoltoio. E questo feci per sette lunghe notti, ogni notte proprio a mezzanotte, ma trovai l’occhio sempre chiuso; e così era impossibile compiere l’opera poiché non era il vecchio che mi irritava, ma il suo Occhio Maligno. E ogni mattino, sul far del giorno, entravo spavaldo nella camera, e gli parlavo coraggiosamente, chiamandolo per nome in tono cordiale, e chiedendogli come aveva passato la notte. Perciò capirete ch’egli avrebbe dovuto essere un vecchio davvero molto profondo, per sospettare che ogni notte, esattamente alle dodici, io gli facevo una visitina mentre dormiva.

L’ottava notte fui più cauto del solito nell’aprire la porta. La lancetta dei minuti di un orologio si muove più velocemente di quanto si muovesse la mia mano. Mai prima di quella notte avevo sentito l’estensione delle mie capacità, della mia sagacia. Potevo appena trattenere i miei sentimenti di trionfo. Pensare ch’ero là, che aprivo la porta, a poco a poco, e che egli non si sognava nemmeno delle mie azioni o dei miei pensieri segreti. Quasi sghignazzai a quest’idea; e forse egli mi udì, poiché improvvisamente si mosse sul suo letto come svegliandosi di soprassalto. Ora potreste pensare ch’io mi fossi ritirato, ma niente affatto. La sua camera era nera come la pece per le fitte tenebre (perché le imposte erano accuratamente chiuse, per timore dei ladri), e perciò sapevo che non poteva veder aprirsi la porta, e continuai a spingerla risolutamente, risolutamente.

Ormai la mia testa era già dentro ed ero in procinto di aprire la lanterna, quando il mio pollice scivolò sulla chiusura di latta, e il vecchio balzò a sedere sul letto gridando:

– Chi è là? –

Restai assolutamente immobile e non dissi nulla. Per tutta un’ora non mossi un muscolo, e in quel frattempo non l’udii mettersi giù. Era sempre seduto sul letto, in ascolto, proprio come avevo fatto io, una notte dopo l’altra, ascoltando nel muro gli orologi della morte.

Poco dopo udii un lieve gemito, e compresi ch’era il gemito del terrore mortale. Non era un gemito di pena o di dolore, oh no! Era il suono sommesso e soffocato che sale dal fondo dell’anima oppressa dalla paura. Conoscevo bene quel suono. Più di una notte, esattamente a mezzanotte, quando tutto il mondo dormiva, era sgorgato dal mio proprio petto, approfondendo, con la sua spaventosa eco, i terrori che già mi sconvolgevano. Dico che ben lo conoscevo. Sapevo quel che il vecchio provava, e ne avevo compassione, sebbene in cuore sogghignassi. Sapevo che egli era rimasto sveglio fin dal primo leggero rumore, quando si era rigirato sul letto. I suoi timori erano andati crescendo sempre più da quel momento. Egli aveva tentato di convincersi della loro infondatezza, ma non vi era riuscita. Egli andava dicendo a sé stesso: “Non è altro se non il vento nel camino, è solo un topo che attraversa il pavimento”, oppure: “è soltanto un grido che ha emesso un unico strido”. Sì, egli aveva tentato di confortarsi con queste supposizioni: ma le aveva trovate tutte vane. Tutte vane; perché la Morte, avvicinandosi, era passata con la sua nera ombra davanti a lui, e aveva avviluppato la vittima. Ed era il funereo influsso dell’ombra inavvertita che gli faceva sentire, benché non vedesse né udisse, sentire la presenta della mia testa dentro la stanza.

Quando ebbi atteso a lungo pazientissimamente, senza averlo udito distendersi, risolsi di aprire una piccola, una piccola, piccolissima fessura nella lanterna. Così l’aprii, non potete immaginare quanto furtivamente, furtivamente, finché alla fine un unico, pallidissimo raggio, simile a un filo di ragno, uscì dalla fessura e cadde in pieno sull’occhio d’avvoltoio.

Era aperto, spalancato, spalancato, e nel fissarlo la furia montò in me. Lo vedevo con perfetta chiarezza, tutto di un azzurro cupo, ricoperto da un orrendo velo che mi raggelò fino al midollo; ma non potevo vedere null’altro del volto e del corpo del vecchio: perché, come per istinto, avevo diretto il raggio esattamente su quell’unico maledetto punto.

E non vi ho forse detto che ciò che voi scambiate per follia è soltanto iperacutezza dei sensi? Ora, vi dico, alle mie orecchie pervenne un suono sommesso, cupo e breve, come fa l’orologio quando è avvolto nel cotone. Conoscevo bene anche quel suono. Era il battito del cuore del vecchio. Esso accrebbe la mia furia, come il battere del tamburo stimola il coraggio del soldato.

Ma ancora mi trattenni e rimasi fermo. Respiravo appena. Reggevo la lanterna immobile. Cercavo di mantenere il più fermamente possibile il raggio sull’occhio. Frattanto, l’infernale tambureggiare del cuore aumentava. Diventava sempre più forte e sempre più rapido ad ogni istante. Il terrore del vecchio doveva essere estremo! Divenne più forte, dico, più forte di attimo in attimo! Mi seguite bene? Vi ho già detto che sono nervoso: e lo sono infatti. E adesso, nell’ora morta della notte, nel pauroso silenzio di quella vecchia casa, un suono strano come questo mi eccitò fino al terrore più incontrollabile. Eppure, ancora per qualche minuto mi trattenni e non mi mossi. Ma il battito diveniva più forte, più forte! Pensai che il cuore dovesse scoppiare. E ora una nuova ansietà mi colse: il rumore sarebbe stato udito da un vicino! L’ora del vecchio era giunta! Gettando un urlo altissimo, aprii la lanterna e balzai nella stanza. Egli lanciò un grido, un solo grido. In un attimo lo scaraventai sul pavimento e gli rovesciai addosso il pesante letto. Poi sorrisi gaiamente nel vedere l’opera giunta a questo punto. Ma, per molti minuti, il cuore continuò a battere con un suono attutito. Tuttavia, questo non mi irritava; non lo si sarebbe udito attraverso il muro. Alla fine cessò. Il vecchio era morto. Spostai il letto ed esaminai il cadavere. Sì, era morto, morto stecchito. Posai la mano sul cuore e ve la tenni per molti minuti. Non v’era alcuna pulsazione. Era proprio morto stecchito. Il suo occhio non mi avrebbe più turbato.

Se ancora mi giudicate matto, non la penserete più così quando vi avrò descritto le sagge precauzioni ch’io presi per l’occultamento del corpo. La notte era per finire e io lavoravo in fretta, ma in silenzio. Prima di tutto smembrai il cadavere. Staccai il capo, le braccia e le gambe.

Poi divelsi tre tavole dell’assito della stanza e posai ogni cosa tra i travicelli. Ricollocai poi le assi con tanta astuzia, con tanta abilità, che nessun occhio umano, – nemmeno il suo – avrebbe potuto scorgervi qualcosa di sospetto. Non v’era nulla da lavare, nessuna macchia di nessun genere, nessuna traccia di sangue. Ero stato troppo accorto perché questo accadesse.  Un mastello aveva accolto ogni cosa, ah! Ah!

Quando ebbi finito di sbrigare queste mie faccende erano le quattro, ed era ancora buio come a mezzanotte. La campana suonava appunto l’ora, quando intesi bussare all’uscio di strada. Scesi ad aprire col cuore leggero: che cosa dovevo temere, ora? Entrarono tre uomini, che si presentarono, con perfetta cortesia come funzionari di polizia. Un urlo era stato udito da un vicino durante la notte; era sorto il sospetto che fosse avvenuto qualcosa di losco; la notizia era stata riferita al commissariato di polizia, ed essi (i funzionari) erano stati inviati a perquisire lo stabile. Sorrisi poiché che cosa avevo da temere? Diedi loro il benvenuto. L’urlo, spiegai, era stato lanciato da me durante un sogno. Il vecchio, aggiunsi, era assente: si trovava in campagna. Portai i visitatori in giro per la casa. Li incitai a cercare, a cercare bene. Li condussi alla fine nella sua camera. Mostrai loro i tesori intatti. Nella foga della mia fiducia portai sedie nella stanza, e li pregai di accomodarsi per riposare dalle loro fatiche, mentre io, nella folle audacia del mio trionfo perfetto, collocai la mia sedia sul punto preciso sotto il quale c’era il cadavere. I funzionari erano soddisfatti. I miei modi li avevano convinti. Io ero a mio agio. Essi sedettero, e mentre io rispondevo allegramente, chiacchieravano di cose familiari. Ma, poco dopo, mi sentii impallidire e desiderai che se ne andassero. La testa mi doleva e mi pareva di sentire un trillo nelle orecchie: ma essi restavano e continuavano a chiacchierare. Il trillo divenne più distinto: persistesse e divenne ancor più distinto; mi misi a discorrere con maggior animazione per sbarazzarmi di quella sensazione: ma esso insisteva e diventava sempre più definito. Poi mi accorsi che il rumore non era nelle mie orecchie.

Certo ora divenni molto pallido; ma parlavo con maggior scioltezza e alzando la voce. Ma il suono si faceva più forte; e che cosa potevo fare? Era un rumore sommesso, soffocato e rapido, molto simile al suono che fa un orologio quando è avvolto nel cotone.

Feci sforzi per respirare; e nondimeno i funzionari non l’udivano. Parlai più in fretta, con maggior veemenza; ma il rumore aumentava costantemente. Mi alzai e presi a discutere di futilità, con voce acutissima e con violente gesticolazioni; ma il rumore aumentava inesorabilmente. Perché non volevano andarsene? Misuravo il pavimento innanzi e indietro, a gran passi, come se fossi esasperato dalle osservazioni di quegli uomini; ma il rumore aumentava inesorabilmente. Oh, Dio! Che cosa potevo fare? Schiumavo, deliravo, bestemmiavo! Smossi la sedia sulla quale stavo seduto e la feci stridere sulle assi, ma il rumore soverchiava ogni cosa, continuando ad aumentare. Divenne più forte, più forte, più forte! E sempre gli uomini discorrevano gaiamente, e sorridevano. Era mai possibile che non udissero? Dio onnipotente! No, no! Essi udivano! Essi sospettavano! Essi sapevano! Si facevano beffe del mio orrore! Questo pensai, e questo penso. Ma qualunque cosa era più tollerabile di quella derisione! Non potevo sopportare più oltre quei sorrisi ipocriti! Sentivo che dovevo urlare o morire! E ora di nuovo! Ascoltate! Più forte! Più forte! Più forte! Più forte!

– Scellerati! – gridai, – cessate di simulare! Confesso d’averlo fatto! Strappate queste tavole! Qui, qui! È il battito del suo cuore orrendo!

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Almeno per quanto riguarda le prime righe, oggi le persone attorno a me mi vedono così...
Aware 28-8-2008

Visione sulle donne…
Quando trovi un'amica le parli,
quando ti arrabbi discuti,
quando sei in compagnia dialoghi.
Morire se stai zitta un secondo!


(Flavio Oreglio, Il momento è catartico, Ed. Mondadori)
Claudia 31-8-2008

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